Sei un otroverso? Si, no, forse…

Il termine psicologico cosi definito da Rami Kaminski descrive un modo di essere e stare al mondo in alternativa allo status di introverso-estroverso.

L’otroversione, un nuovo modo per definire la personalità umana. A volte si ha la netta percezione che gli studiosi della psiche si divertano a cercare nuove parole per definire le personalità umane. E’ il caso dell’ultima coniata “otroversione”. A prima vista sembrerebbe un neologismo derivato da “otre”, un recipiente fatto di pelle di capra conciata e cucita, usato nell’antichità (e ancor oggi da popolazioni primitive) per contenere e trasportare liquidi, soprattutto vino e olio, molto amato da chi ama ”alzare il gomito”, la famosa espressione per descrivere il movimento necessario per portare il bicchiere alla bocca, un movimento più accentuato quando si beve in eccesso. 

Oppure potrebbe derivare dalla lingua spagnola “otro”, ossia “altro” con l’articolo indeterminativo maschile o femminile, ad indicare una persona, una cosa diversa o di qualità differente. Un’analisi superficiale porterebbe, quindi, a considerare l’otroverso, un adoratore del dio Bacco o un’altra persona diversa da sé stessa. Poiché si vive in un’epoca in cui c’è la mania di definire tutto, anche il più piccolo aspetto, l’irruzione dell’ultima parola apparsa sulla scena non è sfuggita alla nuova tendenza.

Alla resa dei conti, l’otroversione è stata definita come la condizione di chi non ama la comunicazione col gruppo, ma è provvisto di un pensiero singolare. Inoltre preferisce i “rapporti intensi” a quelli “toccata e fuga” e la “genuinità all’omologazione”. L’abitudine di inserire le caratteristiche umane in una sorta di paradigma risale alla notte dei tempi. Ma è soltanto con lo sviluppo della psichiatria che i tratti peculiari di ogni personalità umana sono trasformati in “prontuari” pronti all’uso. Infatti, nel 1952 venne alla luce, il “Manuale Diagnostico e Statistico”, meglio conosciuto con l’acronimo DSM, una sorta di “sacra scrittura” per la psichiatria.

Questo testo, basato su fondamenti scientifici rispetto ai compendi esistenti prima di allora, ha dato la possibilità di inserire i sintomi nelle diagnosi di cui si fa uso ancora oggi. L’ultimo aggiornamento risale al 2013, che classifica e diagnostica i disturbi mentali, introducendo diverse novità rispetto alle edizioni precedenti, tra cui: l’unificazione delle diagnosi nell’ambito dell’autismo sotto un’unica categoria di “Disturbo dello Spettro Autistico” basata su due criteri principali: deficit nella comunicazione sociale e interessi ristretti/ripetitivi; la nascita di nuove categorie diagnostiche, come le “dipendenze comportamentali” (es. gioco d’azzardo); l’introduzione di specificatori per valutare la gravità dei disturbi; il riconoscimento del “Disturbo da Regolazione del Temperamento con Disforia” (TDD) nella sezione dei disturbi dell’umore; la nascita di nuove scale per valutare il rischio suicidario e di demenza/psicosi

Con la sanità pubblica al collasso, le lunghe liste d’attesa, i costi esosi di quella privata, si sta diffondendo coi social, la cattiva abitudine di diagnosi “fai da te”, che è assai deleterio. Il problema di fondo è che ognuno di noi è una parte di tutto, è così com’è. Ogni “categorizzazione” non va presa per oro colato, ma come un ulteriore strumento per comprendere sé stessi, che è un percorso molto complicato.