Mentre i vertici dell’Istituto di previdenza tornano ai livelli pre-riforma, i pensionati si accontentano di 2,80 euro in più al mese.
Dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 28 luglio scorso che ha dichiarato illegittimo il limite di 240mila euro agli stipendi dei dirigenti pubblici, l’INPS ha già proceduto al riallineamento delle retribuzioni per i suoi dirigenti apicali. Una mossa rapida che riporta i compensi ai livelli pre-riforma Monti-Renzi, con un tetto massimo che ora tocca i 311mila euro annui.
La decisione della Consulta ha infatti ripristinato il vecchio sistema che parametrava gli stipendi dei dirigenti pubblici al compenso del primo presidente della Corte di Cassazione. Un cambio di passo che interessa direttamente i 43 dirigenti di prima fascia dell’Istituto nazionale di previdenza sociale, molti dei quali nel 2024 avevano già superato la soglia dei 240mila euro grazie alle varie indennità accessorie.
L’INPS ha precisato che gli adeguamenti non comportano maggiori esborsi per l’ente, grazie agli accantonamenti effettuati in passato quando i contratti prevedevano compensi più elevati. “Le retribuzioni sono disciplinate dai contratti collettivi e individuali secondo le disposizioni legislative”, spiegano dall’Istituto, “e dopo la sentenza 135/2025 della Corte Costituzionale il fondo non è stato incrementato”.
L’incognita dei costi reali
Nonostante le rassicurazioni dell’INPS, permangono interrogativi sui costi effettivi dell’operazione. Il ministro della Pubblica Amministrazione Paolo Zangrillo aveva stimato che solo “10-12 persone complessivamente” avrebbero beneficiato di aumenti sopra i 300mila euro, con un impatto “minimo” sulle casse pubbliche. Tuttavia, lo stesso ministro aveva ipotizzato che, considerando le indicizzazioni perse negli anni, alcuni stipendi avrebbero potuto raggiungere i 350-360mila euro.
Altre amministrazioni pubbliche stanno ora valutando come procedere in attesa del nuovo decreto della Presidenza del Consiglio annunciato dal governo Meloni per ridefinire il quadro normativo. Alcune riflettono ancora, altre potrebbero seguire l’esempio dell’INPS applicando l’automatismo previsto dalla sentenza costituzionale.
Il contrasto con gli “aumenti” pensionistici
La vicenda degli stipendi dei dirigenti pubblici assume contorni ancora più paradossali se confrontata con gli aumenti riservati ai pensionati per il 2025. Mentre i vertici dell’INPS vedono i propri compensi schizzare oltre i 300mila euro, i pensionati italiani dovranno accontentarsi di incrementi ben più modesti.
Per il prossimo anno, le pensioni minime saliranno di appena 2,80 euro al mese, passando dagli attuali 598,61 euro a 601,41 euro. Un aumento che rappresenta lo 0,8% in più rispetto al 2024. Anche le pensioni più consistenti vedranno incrementi contenuti: quelle fino a quattro volte il minimo INPS riceveranno una rivalutazione del 100% dell’inflazione, mentre per quelle superiori la percentuale scenderà progressivamente.
Il contrasto è più che evidente: da una parte dirigenti che recuperano decine di migliaia di euro l’anno, dall’altra milioni di pensionati che dovranno arrangiarsi con pochi euro in più al mese per far fronte al carovita. Una situazione che riaccende il dibattito sulla giustizia distributiva e sulle priorità di spesa pubblica in un momento di risorse limitate.