A distanza di vent’anni e più la famiglia e il suo legale continuano a lottare per dissipare le ombre rimaste oltre la verità giudiziaria sull’omicidio della ragazzina pugliese.
Foggia – La mattina del 13 novembre 2004, il corpo senza vita di Giusy Potenza, 14 anni, fu ritrovato tra le scogliere garganiche del golfo di Manfredonia. Il viso era orrendamente sfigurato da colpi di pietra e il cadavere martoriato dalle violenze. La giovane si era allontanata da casa per una commissione e non era più tornata. La sparizione della giovane era stata denunciata tempestivamente dai genitori i quali avevano cercato la figlia in lungo e in largo continuando le affannose ricerche con parenti e amici per diversi giorni.
L’arresto e la confessione
La svolta cruciale nelle indagini giungeva ad un mese dal ritrovamento della salma grazie ad una telefonata anonima. L’interlocutore indicava come presunto colpevole un cugino del padre della vittima. Gli investigatori, seguendo questa pista, procedevano con la comparazione del materiale genetico rinvenuto sulla vittima con quello di diversi uomini appartenenti alla famiglia Potenza, fino a ottenere un match inequivocabile col DNA di Giovanni Potenza, effettivamente un lontano cugino della povera ragazzina.

L’uomo, interrogato dagli inquirenti per ore, crollava quasi subito e confessava l’omicidio della piccola Giusy. Secondo la ricostruzione fornita dall’indagato tra i due vi sarebbe stata una relazione clandestina e quella sera si sarebbero incontrati per consumare un rapporto sessuale cosi come confermato dalle analisi di laboratorio. Subito dopo Giovanni e Giusy avrebbero iniziato a litigare di brutto. Giovanni Potenza riferiva agli investigatori che Giusy lo avrebbe minacciato di rivelare la tresca alla moglie se l’uomo non fosse sparito dalla sua vita. Nella concitazione del momento la ragazzina sarebbe precipitata dentro un anfratto del costone roccioso rimanendo gravemente ferita.
Sempre secondo il raccolto dell’uomo la ragazza era ancora viva ma le sue condizioni sarebbero state gravi tanto che Giovanni Potenza decise di accompagnarla in ospedale. Mentre la coppia si dirigeva verso l’auto del parente Giusy avrebbe ripetuto la minaccia di raccontare tutto alla famiglia di lui se la loro relazione non fosse finita all’istante. L’indagato, a questo punto, decise di ammazzare l’amante colpendola ripetutamente alla testa con una grossa pietra sino a quando si accorse che la ragazzina era morta.

Confermato l’esito delle analisi genetiche e verbalizzata la confessione, Giovanni Potenza veniva processato e condannato a 30 anni di reclusione nei tre gradi di giudizio. Nonostante la verità processuale permangono tutt’ora alcuni aspetti non del tutto chiari sul numero degli esecutori materiali e sul movente dell’omicidio.
Verità negate?
La tragedia occorsa a Giusy Potenza non solo ha spezzato una giovane vita, ma ha distrutto letteralmente un’intera famiglia. Nelle settimane successive alla tragedia il padre di Giusy accoltellò in strada, ferendolo, il padre di una ragazza che era stata vista alla guida di una Fiat Punto verde che si sarebbe trovata sul luogo dell’omicidio al momento della scomparsa di Giusy. Successivamente la madre Grazia, incapace di riprendersi dalla terribile vicenda, si tolse la vita nonostante fosse in attesa di un bimbo.
Gli altri parenti della vittima continuano a cercare la verità reale a vent’anni e più di distanza da quel tragico evento delittuoso. L’avvocata Innocenza Starace, rappresentante dei familiari, nella sua ultima intervista ha dichiarato che “Il desiderio di appurare la verità e di capire se ci sono altre persone coinvolte nella vicenda non ha mai abbandonato i miei assistiti“. Michela Potenza, sorella della vittima, e il nonno materno, Matteo Rignanese sperano in un una nuova inchiesta:”Siamo cercando di capire se ci sono i presupposti per impostare una richiesta di riapertura delle indagini, poi valuteremo il da farsi”.
Il sospetto che la confessione di Giovanni Potenza possa essere stata lacunosa o a tratti omertosa, apre lo spiraglio a scenari tanto inediti quanto macabri. Se la vittima fosse stata invece attirata su quella scogliera desolata da più persone? E se soggetti terzi avessero deciso di ucciderla dopo averla violentata? In fondo la versione della relazione clandestina fornita dal colpevole potrebbe essere stato un alibi creato ad hoc per giustificare le tracce biologiche presenti all’interno del corpo della vittima. Le suggestioni sono molteplici.

In un caso che sconvolge una comunità questa maniera, è fisiologico che le risposte alle innumerevoli domande sembrino non bastare mai. L’avvocata Starace aggiunge: “Spero che il materiale repertato sia ancora disponibile. Se cosi fosse, con le nuove tecnologie si potrebbe andare a colmare quei ‘vuoti’ del passato e unirli ad ulteriori elementi e fattori che lasciano pensare alla partecipazione o complicità di altre persone. Abbiamo colto dei segnali che potrebbero indurre a chiedere la riapertura del procedimento”.
Il ricordo
La comunità di Manfredonia si è sempre adoperata attraverso manifestazioni, fiaccolate, convegni e murales a mantenere vivo il ricordo di Giusy, cercando non solo di commemorarla, ma anche di trasformare quel lutto in impegno sociale.
Secondo l’ISTAT da inizio anno sono stati 60 i femminicidi, nel 2024 sono state 117 in tutto le donne morte ammazzate. Davanti a questi dati non si può fare altro che pensare a quanto sia profondamente innervato il cancro della violenza contro le donne nel nostro Bel Paese. La brutalità contro il sesso femminile è un fenomeno umano e come tale ha avuto un’origine e avrà inesorabilmente anche una fine.
La lotta deve continuare: “Non una di meno“.