Case popolari, quel patrimonio poco “chic” ma pieno di storia di cui ci si vergogna

Le case popolari in Italia ospitano 2,3 milioni di persone ma restano invisibili. Tra degrado, attese infinite e progetti di riqualificazione, ecco perché rappresentano una risorsa per le città del futuro.

Le case popolari sono poco attrattive, ma rappresentano il cuore della città. Nella narrazione dominante, l’architettura non ha mai preso in considerazione le case popolari, perché considerate esteticamente poco seducenti e, inoltre, inficiano l’immagine del mercato. Considerati luoghi quasi invisibili, si è scoperto poi che, invece, hanno tanta storia che merita rispetto e valorizzazione. Oggi che tutte le discipline abbondano di espressioni retoriche, quali inclusività, accessibilità e sostenibilità, non si comprende l’ostracismo in atto.

Le liste d’attesa per accedere all’assegnazione contengono più di 700 mila famiglie, perché la domanda sociale è in crescita, a conferma che lo stato socioeconomico di disagio si è esteso

Se questi termini hanno un senso dovrebbero valere per tutti, altrimenti si tratta di parole insensate, che si perdono nel pulviscolo atmosferico. Dal censimento dell’ISTAT risulta che il territorio nazionale è composto da più di 750 mila case popolari, dette anche “alloggi di edilizia residenziale pubblica” (ERP), sparsi in circa 7 mila quartieri in cui risiedono oltre 2,3 milioni di cittadini. Eppure di questa massa di persone se ne parla solo in caso di fatti cruenti o eclatanti. Per il resto scompaiono dai radar del “politically correct”. Le liste d’attesa per accedere all’assegnazione contengono più di 700 mila famiglie, perché la domanda sociale è in crescita, a conferma che lo stato socioeconomico di disagio si è esteso. Le condizioni delle case sono prossime allo sfacelo. Il 40% ha bisogno di manutenzioni strutturali e solo una piccola percentuale ha goduto, negli ultimi 20 anni, di interventi di riqualificazione.

Malgrado ciò, il patrimonio immobiliare di questi edifici resta, comunque, rilevante. Tuttavia, dopo la seconda guerra mondiale, fu proprio l’edilizia pubblica ad esplorare nuovi contesti abitativi. I tanti vituperati quartieri di oggi sorsero grazie a nomi importanti dell’architettura, quali Gino Valle, Giancarlo De Carlo, Giovanni Michelucci. Tutte opere pensate per la comunità, con servizi integrati in cui era possibile trovare praticità e immaginazione, a conferma delle rinate speranze del dopoguerra.

Le case popolari sono considerate brutte, sporche e cattive, ma andrebbero viste come una risorsa.

In Francia, ad esempio, molti quartieri popolari sono stati riqualificati senza abbattere niente, con semplici operazioni come allargare gli spazi, dando più luce e realizzando la coibentazione. Tutto realizzato senza eliminare ciò che c’era, lavorandoci su senza sostituire nulla. Nei Paesi Bassi l’edilizia pubblica è fatta con materiali di qualità, spazi condivisi, molto verde e integrandosi col resto della città. Nel Belpaese qualcosa si sta tentando di fare come il progetto della nota archistar Renzo Piano, partito nel 2013 con un gruppo di lavoro per riqualificare le periferie con piccoli interventi mirati. Comunque, le case popolari continuano ad avere impronte indelebili e ad essere considerate brutte, sporche e cattive. In queste condizioni, è chiaro che cala il sipario su di esse, vista la prevalente estetica patinata comunicata attraverso i media e i social.

Ed invece i quartieri popolari dovrebbero costituire una risorsa non un onere. Non bisogna progettare case popolari come se dovessero viverci gli emarginati, gli esclusi e i reietti, ma pensare che ogni mattone, ogni spazio influisca con determinazione sulla dignità, sul benessere e sui bisogni di un’intera comunità. Ma per fare questo c’è bisogno della “Grande Politica” che sembra aver abdicato a favore delle questioni di piccolo cabotaggio. Non si scorge nulla all’orizzonte, solo il vuoto assoluto. Che tristezza!

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