Inchiesta Report: “Mori comanda tutto”. Un solo colloquio formale in dodici mesi, per gli altri solo telefonate.
Roma – La Commissione Parlamentare antimafia, istituita nel 1963 e rinnovata in ogni legislatura come uno degli organi più importanti della Repubblica italiana per la lotta alle organizzazioni criminali, si trova al centro di pesanti critiche per la gestione dell’ultimo anno. L’organismo, composto da 25 deputati e 25 senatori scelti proporzionalmente dai diversi gruppi parlamentari, ha il compito di vigilare sui fenomeni mafiosi, controllare l’attuazione della legislazione antimafia e riferire periodicamente al Parlamento sui risultati delle proprie indagini.
L’accusa principale riguarda l’abbandono dei testimoni di giustizia, figure chiave nella lotta alla criminalità organizzata, che oggi sembrano essere state dimenticate dall’istituzione che dovrebbe proteggerle. La Commissione, infatti, ha tra i suoi compiti statutari quello di vigilare sull’efficacia delle misure di protezione e di ascoltare regolarmente chi ha deciso di collaborare con lo Stato.
Un solo testimone audito in dodici mesi
I dati che emergono dall’attività del Comitato dedicato ai testimoni di giustizia sono allarmanti: nel corso dell’ultimo anno è stata convocata ufficialmente una sola persona per un’audizione formale. Gli altri testimoni, secondo fonti dirette, non sono mai stati ascoltati attraverso i canali istituzionali previsti.
In alcuni casi si è proceduto con semplici telefonate informali da parte di funzionari o parlamentari, conversazioni brevi e prive delle garanzie procedurali che un organismo di tale rilievo dovrebbe assicurare. Nessun verbale ufficiale, nessuna possibilità di confronto pubblico, nessuna opportunità per questi cittadini di raccontare formalmente le proprie vicende.
I testimoni di giustizia rappresentano una categoria giuridica specifica, disciplinata dalla legge 45/2001, distinta dai collaboratori di giustizia. Mentre questi ultimi sono ex appartenenti alle organizzazioni criminali che decidono di collaborare, i testimoni sono cittadini estranei alle cosche che hanno assistito a fatti criminosi o hanno subito intimidazioni per aver denunciato. In Italia sono circa 1.500 le persone inserite nei programmi di protezione per testimoni, con 3.000 familiari al seguito.
Per questa categoria il sistema di protezione prevede misure di sicurezza personale, sostegno economico, assistenza per il reinserimento lavorativo e, nei casi più gravi, il cambio di identità e trasferimento in località protette. Tuttavia, numerose inchieste giornalistiche e relazioni parlamentari degli anni passati hanno evidenziato le gravi carenze del sistema: ritardi nell’erogazione dei sussidi, difficoltà nel trovare nuove occupazioni, mancanza di coordinamento tra le varie istituzioni coinvolte.
La figura controversa del generale Mario Mori
Mario Mori, generale dell’Arma dei Carabinieri in pensione, è una figura che da decenni divide l’opinione pubblica e il mondo giudiziario. Nato a Palermo nel 1944, ha guidato il Ros (Raggruppamento Operativo Speciale) dal 1991 al 2001, periodo cruciale della lotta antimafia che ha visto le stragi di Capaci e via D’Amelio, l’arresto di Totò Riina e le trattative tra Stato e mafia.

Mori è finito al centro di numerose inchieste giudiziarie. Nel 2018 è stato condannato in primo grado a 4 anni per favoreggiamento aggravato in relazione alla latitanza di Bernardo Provenzano, sentenza poi annullata in appello nel 2021. È stato inoltre indagato per le presunte trattative tra apparati dello Stato e Cosa Nostra dopo le stragi del 1992, procedimento che si è concluso con l’archiviazione nel 2021.
La sua presenza nell’orbita della Commissione antimafia non è nuova: già in passato era stato consulente dell’organismo parlamentare ma le attuali accuse di Report configurerebbero un’influenza diretta e non trasparente sulle decisioni dell’organo.
Le accuse specifiche dell’inchiesta di Report
Paolo Mondani, giornalista inviato della trasmissione, ha ricostruito un presunto sistema di influenze che vedrebbe Mori al centro delle decisioni della Commissione. Secondo l’inchiesta televisiva, il generale avrebbe inserito propri consulenti nell’organismo; avrebbe orientato specifiche audizioni, particolarmente quelle relative alla strage di via D’Amelio e al cosiddetto dossier “mafia-appalti”; promosso una narrazione che minimizzerebbe il ruolo dei servizi segreti nelle vicende degli anni ’90; operato per limitare l’influenza di membri critici come il senatore Roberto Scarpinato, magistrato ed ex procuratore generale di Palermo.

Il senatore Scarpinato, interpellato da Report, ha confermato di aver avuto contrasti interni alla Commissione e di essere stato progressivamente escluso dalle decisioni più importanti. “C’è chi vuole riscrivere la storia”, ha dichiarato il magistrato, riferendosi alle pressioni per modificare la ricostruzione ufficiale delle stragi del 1992.
Un organismo sotto controllo esterno?
Se confermate, queste informazioni configurerebbero un’interferenza grave nell’autonomia dell’organismo parlamentare. La Commissione antimafia dovrebbe operare in piena indipendenza, senza condizionamenti esterni, per svolgere efficacemente il proprio ruolo di vigilanza e controllo nella lotta alle mafie.
L’eventuale influenza di figure esterne alle istituzioni parlamentari solleverebbe interrogativi sulla reale capacità dell’organismo di svolgere il proprio mandato costituzionale.
I precedenti storici della Commissione antimafia
La Commissione Parlamentare antimafia ha attraversato nel corso dei decenni momenti di grande prestigio e altri di profonda crisi. Presieduta da figure storiche come Pio La Torre (ucciso dalla mafia nel 1982), Luciano Violante e Rosy Bindi, ha prodotto relazioni fondamentali sulla criminalità organizzata e sulla sua evoluzione.
Tuttavia, non è la prima volta che l’organismo finisce sotto accusa per presunta parzialità o inefficacia. Negli anni ’90, durante i lavori sulla strage di via D’Amelio, emersero forti contrasti interni che portarono alle dimissioni di diversi membri. Anche la gestione del dossier sulle stragi del 1992-1993 ha sempre diviso l’organismo tra chi sosteneva la “pista esterna” (coinvolgimento di apparati statali deviati) e chi privilegiava la ricostruzione giudiziaria ufficiale.

La presidenza di Chiara Colosimo, deputata di Fratelli d’Italia ed ex sindaca di Anguillara Sabazia, era iniziata nel novembre 2022 con l’impegno di “dare voce a tutte le vittime delle mafie”. Tuttavia, secondo i critici, questo impegno non si sarebbe tradotto in azioni concrete, in particolare per quanto riguarda i testimoni di giustizia.
Le reazioni politiche e istituzionali
Le rivelazioni di Report hanno provocato reazioni contrastanti nel panorama politico italiano. L’opposizione ha chiesto chiarimenti immediati e la convocazione urgente della presidente Colosimo in Parlamento per riferire sulla gestione della Commissione. Il Partito Democratico, attraverso i suoi rappresentanti nell’organismo, ha annunciato la richiesta di una riunione straordinaria per discutere delle accuse.
Dal canto suo, la maggioranza di governo ha respinto le accuse definendole “strumentali” e frutto di una “campagna diffamatoria”. Fratelli d’Italia ha espresso piena fiducia nella presidente Colosimo, sottolineando il suo impegno nella lotta alla criminalità organizzata.
La crisi della Commissione antimafia rischia di avere ripercussioni negative sull’intera strategia di contrasto alla criminalità organizzata. Un organismo parlamentare che non riesce a proteggere e ascoltare i testimoni di giustizia perde credibilità ed efficacia, inviando un messaggio scoraggiante a chi potrebbe decidere di collaborare con lo Stato.