Cronaca di una vendetta: la mattina del 13 luglio 1914 il 56enne imprenditore bergamasco semina di cadaveri l’Alta Val Brembana, poi diventa introvabile e scompare nel nulla.
Simone Pianetti ha tenuto fede alla promessa fatta al figlio nel loro ultimo incontro, un attimo prima di uscire dalla storia ed entrare nella leggenda, inghiottito per sempre dalla montagna: “Non mi prenderanno mai, né vivo né morto”. Dalla sua fuga disperata, dopo aver seminato di cadaveri il paese dell’Alta Val Brembana (Bergamo) dove era nato e cresciuto, è passato più di un secolo. Un tempo infinito durante il quale nessuno lo ha più rivisto. Ad un anno dalla strage i giudici condannarono all’ergastolo un latitante inafferrabile, almeno quanto il mistero che avvolge ancora la sua fine, visto che i monti non hanno restituito nemmeno il corpo.
Il rombo dei cannoni della Grande Guerra si incaricò di spegnere il clamore acceso dall’eccidio, la caccia al mostro omicida si allentò progressivamente fino ad esaurirsi: carabinieri e militari impegnati nelle ricerche furono richiamati al fronte, il tritacarne delle trincee avrebbe solcato di altri e più numerosi lutti la Bergamasca e l’Italia intera. Calato il silenzio sulla vicenda, l’imprendibile Pianetti si avviò a diventare una saga popolare, eletto dal popolo a icona di giustizia e vendetta, emblema dell’uomo vessato dal potere e costretto a farsi giustizia da sé.
Sangue e morte: il cammino di vendetta
Infallibile cacciatore di camosci, Simone Pianetti staccò il fucile da caccia grossa, quello a tre canne che stava sopra il camino, la mattina del 13 luglio 1914 – aveva già 56 anni – avviandosi al suo cammino di vendetta dopo aver abbracciato e baciato la figlia minore, la prediletta. Ridotto sul lastrico dal fallimento delle sue attività – prima l’osteria con sala da ballo, quindi il mulino – aveva pensato anche al suicidio, poi era prevalsa la collera. Nella mente si era stilato una personale lista di prescrizione, impresso volti e nomi dei compaesani di Camerata Cornello che per invidia, tornaconto personale o semplice stupidità, gli avevano messo, a torto o a ragione, i bastoni fra le ruote.

Cominciò a colpirli con pazienza e metodo. Il primo a cadere fu il medico condotto Domenico Morali, colpevole di non avere riconosciuto l’appendicite di uno dei figli: Pianetti lo uccise con due colpi di fucile dopo averlo atteso al varco per oltre due ore. Quindi si mise alla ricerca del sindaco. Entrò nel Palazzo Comunale e a bruciapelo sparò sul segretario Abramo Giudici spacciandolo sul colpo, di seguito freddò anche la figlia Valeria, di 27 anni, orribilmente sfigurata al volto. Quarta vittima, a poche decine di metri, il calzolaio e giudice conciliatore Giovanni Ghilardi, sorpreso a casa sua mentre stava per consumare il pranzo di mezzogiorno.
Forse avvertito per tempo, il sindaco si era armato e nascosto, ma i nomi dei tre che morirono al suo posto erano sulla “lista nera”: il segretario aveva firmato l’ordinanza di chiusura della trattoria, la figlia gli aveva spedito cartoline offensive e l’aveva dileggiato, il Ghilardi era semplicemente un avversario politico.
Il sindaco si salva, non il prevosto
Non poteva mancare il prevosto, simbolo del potere ecclesiastico che serrava la valle in una morsa di perbenismo e sospetto per il nuovo e il diverso. Era stato lui ad aizzare la gente contro la balera. Pianetti lo raggiunse sul sagrato mentre don Camillo Filippi stava conversando con il messo comunale Giovanni Giupponi e un tal Gusmaroli: un colpo al petto stroncò il povero prevosto, mentre Giupponi, reo di essersi opposto tempo addietro ad una richiesta di derivazione dell’acqua da una fontana, tentò di darsi alla fuga ma fu raggiunto alla schiena. Si salvò soltanto Gusmaroli, provvidenzialmente svenuto alla vista di quello scempio.
Ormai in preda ad un’incontenibile pulsione omicida Pianetti andò alla ricerca di una certa Caterina Milesi, colpevole di avergli negato un debito di 30 lire e di aver sparlato alle sue spalle. La malcapitata fu freddata nella sua casa. Era la settima vittima, alle tre del pomeriggio la tragedia si era consumata. Pianetti si diede alla fuga sulle montagne, mentre in paese la gente terrorizzata correva a sprangarsi in casa. Il giorno dopo la valle fu invasa da giornalisti e gendarmi, appresso arrivò anche un reparto di fanteria. Cominciò la caccia all’uomo. Scovarlo si rivelò però impossibile.

Di quelle selve il fuggiasco conosceva ogni anfratto, le aveva percorse in lungo e in largo già da bambino e poi ancora durante le lunghe cacce al camoscio. Pianetti era nato il 7 febbraio 1858 nella contrada di Lavaggi, frazione di Camerata Cornello. Alto, biondo, impenitente donnaiolo, fin da giovane rivelò un carattere sanguigno e ribelle, intollerante alla disciplina di un padre padrone al quale arrivò perfino a sparare un colpo di fucile, per fortuna mancando il bersaglio.
Pianetti a New York contro la Mano Nera
Il tentato omicidio convinse il genitore a togliere il giogo a quel figlio indomabile: il giovane Pianetti ebbe la sua parte di eredità e con quella tentò la fortuna in America. Fu allora tra i pochi connazionali ad imbarcarsi per il nuovo mondo non per fame ma per scelta. Approdato a New York passò da un lavoro all’altro fino a quando, insieme ad un amico, non gli riuscì di aprire una società di importazione di frutta e vino. Padrone del suo destino, Pianetti poteva dar finalmente corso al suo spirito di intrapresa, a quella moderna ambizione che tanto somigliava al sogno americano, se non fosse che nella gestione dell’attività si scontrò con l’incubo della mafia locale, la Mano Nera, l’organizzazione dalla quale sarebbe germogliata Cosa Nostra, un cancro cresciuto in seno alle comunità italiane d’oltreoceano nutrito da estorsioni e minacce.
Spirito libero incapace di sottostare al ricatto, Pianetti invece di pagare il pizzo richiesto fece una cosa allora inaudita, denunciò gli estorsori alla polizia. Collaborazione che portò in carcere una decina di insospettabili ma costò la vita al socio e amico, ucciso per ritorsione. Lo stesso Pianetti, braccato, fu costretto a lasciare New York e vivere sotto falso nome fino a quando non fece ritorno in Italia.
L’ex emigrante rientrò a casa portando in dote il bagaglio di esperienze maturate nel nuovo mondo. Pianetti portò l’America in Italia, anzi nelle valli bergamasche dalle quali era partito. Che però si rivelarono impermeabili a qualsiasi innovazione. Cominciò così quell’ostracismo nutrito da maldicenze e subdoli boicottaggi che in seguito lo avrebbe convinto a imbracciare il fucile. L’apertura del casinò nel vicino paese di San Pellegrino Terme, così come l’elezione del deputato liberale Bortolo Belotti, sembravano aver aperto spiragli di cambiamento anche in Val Brembana, ma l’arrivo delle prime autovetture e la comparsa dei turisti suscitarono più fastidio che interesse in un mondo scandito dai tempi della natura e ancorato a valori arcaici, retto da un granitico blocco di potere clerico-conservatore.

Pianetti sposò Carlotta Marini, dalla quale avrebbe avuto nove figli, e insieme alla donna aprì poco fuori Camerata Cornello un’osteria con annessa balera. Accorsero uomini e donne da tutta la valle per vivere quell’inatteso brivido di Belle Epoque, una promiscuità inaudita e danzante che menò grande scandalo tra i puritani, uno su tutti il parroco, capofila di un agguerrito esercito di mogli alle quali la balera della vergogna aveva traviato i mariti. La mala erba della diffamazione finì per soffocare l’osteria, impossibile resistere a quell’ondata di indignazione pelosa, divenuta aperto boicottaggio: Pianetti fu costretto a chiudere.
La balera della vergogna
Vinto ma non piegato, cercò allora scampo dai pregiudizi spostandosi in un paese vicino, San Giovanni Bianco, dove inaugurò un mulino elettrico come quelli visti in America. Innovativo per l’epoca, l’impianto macinava più farina di tutti i concorrenti, un successo che non passò inosservato. Invidia, ignoranza e interessi personali strinsero un nuovo cappio al collo del malcapitato imprenditore. La farina del Pianetti divenne quella “del diavolo”, perché solo un patto con il demonio poteva spiegare a contadini rimasti fermi all’Ottocento quel prodigio figlio della tecnologia. Si arrivò a sostenere che perfino il gozzo, malattia endemica nelle valli montane, fosse causato dal macinato spacciato dall’”americano”. Nessuno si presentò più al mulino e Pianetti, impossibilitato a ripianare i debiti, si trovò sul lastrico.
Solo contro tutti, senza più speranze di riscatto, quell’uomo alla deriva armò il fucile e colpì senza apparente pietà. Compiuta la sua personale giustizia si dileguò in montagna. Il giorno appresso sette carabinieri riuscirono a individuarlo ma non a fermarlo: con lo schioppo Pianetti si aprì una via di fuga, senza mietere altre vittime.
Militari e volontari, soprattutto parenti dei caduti, solcarono invano per settimane le montagne. Perlustrazioni e battute palmo a palmo non diedero esito. Qualcuno riferì che il Pianetti si era rifugiato in una zona selvaggia piena di anfratti e dirupi, inaccessibile ai più. Il fuggiasco armato e braccato faceva ancora paura, in particolare a chi ricordava di avergli fatto uno sgarbo o negato un aiuto, molti di questi si barricarono in casa piantonati dai carabinieri. San Giovanni Bianco e Camerata Cornello apparivamo paesi sotto assedio, la gente inneggiava alla cattura del mostro.
Sfamato da carbonai e pastori
Poi il vento cambiò. Pianetti fu sfamato a polenta e formaggio da carbonai e pastori, accolto di notte nelle loro capanne in alta quota, sostenuto da uomini ai quali la divise suscitavano una naturale avversione. Non erano i soli. Sui muri in valle cominciarono a leggersi scritte a lui inneggianti “W il Pianetti, ce ne vorrebbe uno in ogni paese”: era l’inizio di una progressiva trasfigurazione del killer in giustiziere. Gli inviati dei quotidiani ci misero del loro per alimentare quella diversa percezione popolare dell’eccidio che stava emergendo. Alcune testate anticlericali ne approfittarono per denunciare i soprusi subiti dall’assassino, reiterate angherie che l’avrebbero condotto alla follia omicida, perseguitato a loro dire da un potere oppressivo, rappresentato com’era norma nella provincia italiana di allora dalla inossidabile alleanza tra sindaco, medico condotto e prevosto.

Il sospetto che una parte consistente della popolazione parteggiasse apertamente per il fuggiasco divenne così pesante da obbligare numerosi sindaci a firmare un documento congiunto nel quale respingevano le accuse ribaltandole sull’insipienza dei militari impegnati nelle ricerche.
Certo è che nessuno tradì Pianetti, nemmeno quando la taglia sulla sua testa venne aumentata dalle iniziali mille lire fino all’allettante cifra di 5mila lire. Le ricerche continuarono a non dare alcun risultato. Sul finire di luglio il figlio maggiore Nino fu autorizzato a salire in montagna e incontrare il padre per convincerlo a costituirsi. Ottenne soltanto quell’ultima promessa: “Non mi troveranno mai, né vivo né morto”.
Pianetti diventa un fantasma introvabile
Da quel momento la vita di Pianetti è diventata un’ipotesi, sorretta da congetture e testimonianze solo parzialmente attendibili. La famiglia fece circolare la voce che fosse morto in montagna pochi giorni dopo l’incontro con il figlio, tesi che servì a rasserenare gli animi ma che non convinse mai i valligiani. I più preferivano pensarlo latitante in America, meta raggiunta al termine di una rocambolesca fuga. A suffragare questa ipotesi giunse la testimonianza di una donna originaria di San Giovanni Bianco, la quale raccontò di averlo incontrato nella città venezuelana dove era emigrata con il marito. Il presunto Pianetti le avrebbe raccontato di essersi sottratto alla cattura nascondendosi tra la legna di un carretto e in seguito di aver goduto della complicità di un’influente personalità della zona che gli avrebbe fatto avere, tramite la Questura di Bergamo, un passaporto falso con il quale espatriare in America. Si adombrava così la possibilità che le autorità preferissero non prenderlo, vista la simpatia che Pianetti si era conquistata tra la popolazione, per il timore che la sua cattura provocasse reazioni incontrollate.
Nel 1943 alcuni abitanti sostennero di aver incontrato tra i monti un anziano signore che si presentò loro come Simone Pianetti: poche battute e poi l’uomo scomparve nel bosco. Altre voci riportavano che fosse effettivamente fuggito in America, ma che in seguito avesse fatto ritorno sotto falso nome in Italia, ospite fino alla morte del figlio, nel frattempo trasferitosi a Milano.
L’unica certezza è che Pianetti è rimasto inafferrabile anche da morto. E che il tempo trascorso non ha scalfito il suo mito, un’onda lunga destinata a non avere mai fine. Di tanto in tanto nella Bergamasca tornano i cartelli che ne invocano uno in ogni paese, con l’effige del vendicatore e quegli occhi luciferini puntati per sempre contro ogni potere che tracima in arbitrio.