Il terremoto giudiziario che aveva scosso l’Italia sgretolato come un castello di sabbia. Assolti 11 imputati su 14.
Reggio Emilia – Il cosiddetto “caso Bibbiano” rappresenta uno dei più clamorosi e controversi casi giudiziari degli ultimi anni in Italia, una vicenda che ha attraversato il confine tra cronaca nera e dibattito politico nazionale, trasformandosi in un simbolo utilizzato da diverse forze politiche per battaglie elettorali e ideologiche. Quello che doveva essere un processo su presunti affidi illeciti si è trasformato in un fenomeno mediatico di proporzioni nazionali, con risvolti che hanno coinvolto istituzioni, partiti politici, media e opinione pubblica in un vortice di polemiche, strumentalizzazioni e accuse reciproche.
La sentenza di primo grado del 9 luglio 2025 ha però prodotto quello che molti osservatori hanno definito un vero e proprio “terremoto giudiziario” al contrario: non per le condanne pronunciate ma per il clamoroso ridimensionamento delle accuse iniziali. Un esito che ha lasciato dietro di sé interrogativi profondi sulla narrazione mediatica e politica che aveva accompagnato l’inchiesta, sui meccanismi dell’informazione e sulla responsabilità delle istituzioni nel trattare casi così delicati.
La vicenda si è rivelata essere un caso emblematico di come una complessa indagine giudiziaria possa essere amplificata, distorta e strumentalizzata, generando conseguenze che vanno ben oltre l’aula di tribunale e si riflettono sull’intero sistema di tutela dei minori, sulla fiducia nelle istituzioni e sui meccanismi democratici del nostro Paese.
Il presunto “sistema” degli affidi illeciti
Al centro dell’inchiesta vi erano i servizi sociali dell’Unione Val d’Enza, un consorzio di sette comuni nel Reggiano. Secondo l’accusa, funzionari pubblici, assistenti sociali, medici e psicologi avevano orchestrato un sistema per manipolare le testimonianze dei bambini e sottrarli sistematicamente a famiglie in difficoltà, per poi affidarli ad amici o conoscenti in cambio di denaro.

Le pratiche contestate includevano l’uso di strumentazioni per indurre presunti “falsi ricordi” nei minori e la manipolazione di disegni a sfondo sessuale. Tuttavia, già durante le indagini emerse che quella che era stata definita una “macchinetta della verità” a impulsi elettromagnetici era in realtà un comune apparecchio utilizzato in psicoterapia per inviare stimoli acustici e tattili, ben diverso dalla macchina per elettroshock inizialmente descritta dai media.
La onlus Hansel e Gretel e i protagonisti
Un ruolo centrale nell’inchiesta lo ebbe la onlus Hansel e Gretel, centro privato specializzato in minori e gestito da Claudio Foti e dalla sua ex moglie Nadia Bolognini. Secondo le accuse, la onlus avrebbe ricevuto compensi di circa 135 euro per ogni seduta di psicoterapia, contro una media di 60-70 euro, nonostante l’ASL potesse fornire il servizio gratuitamente.
Foti, che aveva scelto il rito abbreviato, è stato condannato in primo grado nel 2021 per abuso d’ufficio e lesioni dolose gravi ma successivamente assolto in appello nel 2023 e poi definitivamente dalla Cassazione. Bolognini ha concluso il processo di primo grado nel 2025 senza alcun addebito.

Altra figura simbolo del caso è stato l’ex sindaco di Bibbiano Andrea Carletti (PD), finito agli arresti domiciliari e poi sospeso dalle sue funzioni. Carletti era accusato di aver favorito l’insediamento dei terapeuti privati della onlus Hansel e Gretel nei locali della struttura pubblica “La Cura” senza seguire le corrette procedure di affidamento dei servizi. È stato assolto nell’ottobre 2024 per abuso d’ufficio, reato depenalizzato dalla riforma Nordio, e recentemente ha riavuto la tessera del PD.
La strumentalizzazione politica
Il caso Bibbiano è diventato rapidamente un’arma di battaglia politica. Il centrodestra, guidato da Giorgia Meloni e Matteo Salvini, e successivamente il Movimento 5 Stelle, hanno utilizzato la vicenda per attaccare il Partito Democratico in una campagna dai toni particolarmente violenti. Leaders politici si sono recati a Bibbiano per comizi, hanno indossato magliette a tema in Parlamento, trasformando una delicata vicenda giudiziaria in uno strumento di propaganda elettorale.

La strumentalizzazione è stata particolarmente intensa in vista delle elezioni regionali in Emilia-Romagna del 2020, con attacchi diretti alla giunta regionale guidata da Stefano Bonaccini. La vicenda ha generato un clima di tensione sociale e politica che ha travalicato i confini del procedimento giudiziario.
Il ritorno a casa dei bambini
Già nel luglio 2019, a circa un mese dallo scoppio dello scandalo, il Tribunale dei minori di Bologna aveva deciso il ricongiungimento con le famiglie di alcuni dei minori coinvolti, segnalando come la situazione fosse meno drammatica di quanto inizialmente rappresentato.
La sentenza del 2025: il crollo delle accuse
Il 9 luglio 2025, dopo tre anni di udienze e battaglie processuali, è arrivata la sentenza di primo grado che ha prodotto quello che molti hanno definito lo smontaggio di un “teorema”. I giudici del tribunale collegiale di Reggio Emilia, presieduto da Sarah Iusto con a latere Michela Caputo e Francesca Piergallini, hanno pronunciato un verdetto che ha ribaltato completamente le aspettative dell’accusa.
Su 14 imputati, ben 11 sono stati assolti da ogni accusa. Solo tre condanne con pena sospesa sono state pronunciate, in netto contrasto con le richieste della Procura guidata dal pubblico ministero Valentina Salvi, che aveva chiesto condanne per oltre 70 anni totali: Federica Anghinolfi, ex responsabile dei Servizi sociali della Val d’Enza: due anni con pena sospesa (contro i 15 anni richiesti dalla Procura), Francesco Monopoli, assistente sociale: un anno e otto mesi con pena sospesa (contro gli 11 anni e mezzo richiesti), Flaviana Murru, neuropsichiatra dell’AUSL: cinque mesi con pena sospesa (contro gli 8 mesi richiesti).

Tra gli assolti figurano nomi che erano stati al centro delle polemiche, come Nadia Bolognini, la psicologa del centro “Hansel e Gretel” per cui erano stati chiesti 8 anni e 3 mesi e numerosi operatori dei servizi sociali: le psicologhe dell’AUSL Imelda Bonaretti e Federica Alfieri, le assistenti sociali Annalisa Scalabrini e Sara Gibertini, la coordinatrice dei servizi sociali Marietta Veltri, le educatrici Maria Vittoria Masdea e Katia Guidetti, la neuropsichiatra Valentina Ucchino, le affidatarie Fadia Bassmaji e Daniela Bedogni.
Le uniche condanne: episodi di falso documentale
La Procura di Reggio Emilia aveva chiesto condanne fino a 15 anni per oltre 100 capi di imputazione ma le uniche pene decise dal tribunale riguardano episodi molto specifici e circoscritti, ben lontani dal “sistema” originariamente ipotizzato.
Per Federica Anghinolfi, considerata dalla Procura la figura chiave del presunto “sistema”, le due condanne riguardano: un falso del 2018 legato ad aver attestato una causale rimborso rette affidi a una cuoca che in realtà non era affidataria di un bambino, per retribuire la sua attività in una struttura pomeridiana per minori e per usarla come soggetto interposto per pagare la psicoterapia del minore a favore della Sie srl e un’attestazione falsa nel bilancio dell’Unione per gli anni 2017 e 2018, dove si sarebbero imputate nel capitolo di spesa denominato “trasferimenti per contributi affidi” le somme versate agli affidatari che, su direttiva di Anghinolfi, avrebbero poi versato alla Sie srl a saldo delle fatture per la psicoterapia sui minori.

Per Francesco Monopoli, la condanna riguarda un falso in una relazione su una bambina richiesta dal tribunale civile. Per Flaviana Murru, la condanna riguarda la rivelazione di segreti su un procedimento penale.
Su sette capi di imputazione per falso a carico di Anghinolfi, Monopoli e la psicologa Imelda Bonaretti è stato dichiarato il non doversi procedere per prescrizione. Significativamente, il tribunale non ha riconosciuto l’esistenza del presunto “business sugli affidi” che era al centro dell’accusa originaria, né tantomeno il “sistema” per sottrarre illegalmente i bambini alle famiglie.
Anghinolfi dovrà risarcire le parti civili Unione Comuni Val d’Enza, Consiglio nazionale dell’Ordine assistenti sociali e Regione in sede civile. Monopoli, insieme al responsabile civile Asp Sartori, dovrà risarcire la ragazza e i genitori coinvolti, oltre all’Unione Val d’Enza, la Regione e l’associazione Colibrì di Savona.
La sentenza ha rappresentato un punto di svolta che ha sollevato interrogativi profondi sulla narrazione che aveva accompagnato il caso Bibbiano. Le parole dei difensori di Anghinolfi, gli avvocati Oliviero Mazza e Rossella Ognibene, hanno sintetizzato efficacemente il paradosso della vicenda: “Oggi sappiamo che non esistono demoni contrapposti agli angeli, che la nostra assistita non è una ‘ladra di bambini’ e che non ha mai agito per interessi diversi da quello superiore della tutela dei minori. Questa verità giudiziale ci ripaga degli sforzi compiuti, ma non cancella la distruzione mediatica dell’immagine della nostra assistita né i danni irreparabili e incalcolabili provocati al sistema della tutela dei minori”.

Questa dichiarazione racchiude in sé tutta la complessità del caso Bibbiano: da una parte la soddisfazione per una verità giudiziaria che ha ridimensionato drasticamente le accuse, dall’altra la consapevolezza che i danni provocati dalla narrazione mediatica e politica sono ormai irreversibili. La sproporzione tra le richieste iniziali della Procura (oltre 70 anni di carcere complessivi) e l’esito finale (condanne lievi con pena sospesa per soli tre imputati su quattordici) evidenzia come l’impianto accusatorio sia stato completamente smontato dai giudici.
Il processo ha dimostrato che non esisteva alcun “sistema” organizzato per togliere i bambini alle famiglie, contrariamente a quanto sostenuto dall’accusa iniziale. Le uniche condanne riguardano episodi specifici di irregolarità amministrative e documentali, lontani anni luce dal quadro drammatico che era stato dipinto nel 2019.