La morte del cooperante napoletano in Colombia resta avvolta nel mistero. La famiglia: “Prendiamo atto con dolore e amarezza della decisione”.
Roma – Il GIP del Tribunale di Roma ha chiuso definitivamente un capitolo doloroso della cooperazione internazionale italiana, archiviando per la seconda volta l’inchiesta sulla morte di Mario Paciolla. Eppure, a quasi cinque anni dalla scomparsa del giovane cooperante napoletano, le domande rimangono più numerose delle risposte e c’è una famiglia che continua a chiedere giustizia per un figlio che, secondo molti, non si è mai tolto la vita.
Un sogno infranto nella selva colombiana
Mario Paciolla aveva 33 anni quando fu trovato morto nella sua casa di San Vicente del Caguán, nel sud della Colombia. Era il 15 luglio 2020. Originario di Napoli, laureato in Relazioni Internazionali, aveva scelto di dedicare la sua vita alla cooperazione internazionale, lavorando per le Nazioni Unite in una delle missioni più delicate del mondo: il monitoraggio dell’accordo di pace tra il governo colombiano e le FARC.
Il suo compito era tanto nobile quanto pericoloso: garantire la sicurezza dei leader contadini e degli attivisti sociali, facilitare il reintegro degli ex guerriglieri nella società civile, contribuire a costruire la pace in una regione dove la violenza è stata per decenni l’unica lingua parlata. San Vicente del Caguán non è un posto qualunque: è il cuore pulsante del narcotraffico colombiano, dove si produce il 20% della cocaina del Paese, un territorio conteso tra ex guerriglieri che hanno deposto le armi e quelli che hanno scelto di continuare la lotta, spesso al servizio dei cartelli della droga.
L’ultima settimana: quando la paura diventa fuga
Per comprendere la tragedia di Mario Paciolla bisogna ricostruire gli ultimi giorni della sua vita, quando un cooperante determinato e coraggioso si trasforma improvvisamente in un uomo terrorizzato che cerca disperatamente di fuggire dalla Colombia.

Il punto di svolta è il 9 luglio 2020, durante una riunione online di lavoro. Secondo gli atti giudiziari, in quella videoconferenza si discute del progetto di Miravalle, dove gli ex guerriglieri dovevano essere reintegrati ma emerge anche un dettaglio inquietante: l’8 luglio era stato trovato morto un tesoriere di villaggio, ucciso mentre tornava da una riunione. Stranamente, alla videoconferenza partecipa anche l’UNODC, l’agenzia ONU che si occupa di narcotraffico, la cui presenza non è giustificata dal tema della riunione.
Da quel momento, Mario cambia. La fidanzata riferisce che il 10 luglio le confida di aver avuto problemi al lavoro, di essere stato coinvolto in uno scontro. L’11 luglio le dice che deve lasciarla, che deve tornare immediatamente in Italia, che è per proteggerla perché lei dovrà rimanere in Colombia e potrebbe essere pericoloso. Le chiede di non bloccarlo sui social, promettendo che tra qualche mese la ricontatterà per farla venire in Italia.
I genitori, Anna Motta e Pino Paciolla, percepiscono la paura del figlio anche a chilometri di distanza. L’11 luglio Mario confida alla madre di aver avuto problemi con l’organizzazione, che “gliela faranno pagare in qualche modo”. Quando la madre gli chiede direttamente se sia in pericolo di vita, lui risponde evasivamente: “No mamma, non penso”. Ma le sue azioni dicono il contrario: cerca disperatamente un volo per l’Italia, chiede aiuto ai genitori per comprare il biglietto, manifesta un’urgenza che non ha nulla a che vedere con una normale fine missione.
L’ultima comunicazione risale alla mezzanotte del 14 luglio: Mario ha finalmente comprato il biglietto, scrive ai genitori un laconico “risolto”. Doveva partire il 15 luglio, prima per Florencia, poi Bogotà, infine l’Italia. Non ci arriverà mai.
Una ricostruzione piena di buchi
La versione ufficiale delle autorità colombiane presenta una dinamica del suicidio che sembra uscita da un film dell’assurdo. Secondo questa ricostruzione, Mario avrebbe tentato per tre volte di togliersi la vita, fallendo due volte prima di riuscire nell’intento.
Primo tentativo: cerca di impiccarsi nel patio ma nonostante si metta in punta di piedi su una sedia con le braccia tese, non riesce a raggiungere la grata del soffitto. Mancano 9,5 centimetri. Secondo la versione ufficiale, Mario avrebbe lanciato il lenzuolo, centrato il buco della grata, fatto scendere il lenzuolo e realizzato 7-8 nodi “da professionista”. Il tentativo fallisce perché il lenzuolo si sfilaccia.

Secondo tentativo: Mario decide di tagliarsi le vene. Riempie due catini di sangue ma stranamente non lascia tracce sui vestiti. Dispone ordinatamente accanto a sé coltelli e accendini, poi si alza dal materassino con “un colpo di reni” senza lasciare impronte delle mani. Gira per casa gocciolando sangue in modo “metodico”, senza barcollare, senza lasciare impronte di piedi o scarpe. Va al computer, gocciola sangue vicino al mouse ma non macchia la tastiera. Anche questo tentativo fallisce.
Terzo tentativo: ritorna nel patio, risale sulla sedia “con un balzo felino” senza lasciare impronte, rifà tutti i nodi e questa volta riesce a impiccarsi. Quando viene trovato, però, la sedia non è a terra ma in piedi accanto al corpo e i piedi di Mario toccano il pavimento.
Le prove che non tornano
La perizia del dottor Vittorio Fineschi, consulente della famiglia, ha individuato elementi che contraddicono la tesi del suicidio. La frattura dell’osso ioide è compatibile con lo strangolamento, non con l’impiccagione. Il solco sul collo è orizzontale, tipico dello strangolamento, non obliquo come nell’impiccagione. Sul corpo di Mario, che per il resto è “pulitissimo”, c’è una macchia di sabbia fine di 8×8 centimetri sul gluteo destro. Nel sangue sono state trovate tracce di lidocaina, un anestetico paralizzante che Mario non aveva in casa e che non era in vendita nelle farmacie locali.
Ma forse ancora più significativo è quello che è scomparso dalla scena del crimine. I catini pieni di sangue e il materassino gonfiabile sono spariti, portati in discarica da Christian Thompson, il capo della sicurezza della missione ONU. Sono scomparsi anche i quaderni di Mario, dove annotava tutto il suo lavoro, comprese le interviste agli attivisti sociali. Il mouse del computer è stato prelevato dall’ONU e lavato “per riconsegnarlo pulito alla famiglia” ma non è mai stato messo a disposizione dell’autorità giudiziaria.
L’ombra di Christian Thompson
Christian Thompson è forse la figura più controversa di tutta la vicenda. Ex militare, mercenario della sicurezza con esperienze in compagnie private del settore energetico, era il capo della sicurezza a San Vicente del Caguán. Il suo profilo, come lo definisce il professor Simone Ferrari dell’Università Statale di Milano, è “molto ambiguo”.

Thompson si trova sulla scena del crimine per tre volte: il 15 luglio quando “scopre” il corpo, il 16 luglio quando ritorna e il 17 luglio quando arriva con una squadra di pulizia per ripulire tutta la casa con la candeggina. È lui che fa sparire le prove, portandole in discarica senza autorizzazione. È lui che dichiara di aver preso appuntamento con Mario per accompagnarlo all’aeroporto ma dai messaggi agli atti emerge che Mario non si aspettasse quella visita.
Il dettaglio più inquietante è che Mario aveva paura proprio di Thompson. La ex fidanzata riferisce agli investigatori che Mario le aveva detto di non fidarsi di qualcuno del DSS, il dipartimento di sicurezza delle Nazioni Unite. Quando lei gli chiede se si tratti di qualcuno del DSS, Mario risponde: “Esattamente, c’è una persona nella squadra colombiana… Thompson”. Gli investigatori annotano che all’epoca Thompson era l’unica persona del DSS a San Vicente del Caguán.
Dopo la morte di Mario, Thompson viene promosso e trasferito a Bogotà, negli uffici centrali della missione ONU.
Un contesto che conferma i sospetti
Quello che succede dopo la morte di Mario conferma che non si è trattato di un semplice suicidio. Il centro di Miravalle, dove lavorava Mario, inizia a ricevere minacce dai gruppi armati e viene trasferito in un’altra regione. La missione di San Vicente del Caguán passa dal livello di pericolosità C al livello D, quasi il massimo nella scala ONU. Come sottolinea il professor Ferrari, “un aumento del livello di pericolosità non avviene per un caso di suicidio, può avvenire per un caso di morte violenta”.
Le persone con cui Mario lavorava, gli ex guerriglieri che stava aiutando a reintegrarsi, ricevono continue minacce di morte. Il territorio rimane uno dei più pericolosi della Colombia, dove gli interessi del narcotraffico si scontrano con i tentativi di costruire la pace.
La battaglia della famiglia
Per cinque anni, Anna Motta e Pino Paciolla hanno combattuto una battaglia solitaria per ottenere giustizia per il figlio. Con l’aiuto dell’avvocata Alessandra Ballerini, hanno raccolto prove, testimonianze, perizie, hanno evidenziato contraddizioni e anomalie. Hanno trasformato il loro dolore in impegno civile, partecipando a manifestazioni e iniziative a cui Mario avrebbe partecipato, tenendo viva la sua memoria.

“Mio figlio non si sarebbe mai suicidato”, ripete Pino Paciolla, “non era nelle sue corde e nel suo animo. Uno che dona la sua vita per gli altri, non penserà mai di togliersela”. Anna aggiunge: “Quando io guardo il mare, lo guardo intensamente, perché Mario era un amante del mare e ho deciso di farglielo guardare attraverso i miei occhi”.
Il tribunale di Roma ha respinto la prima richiesta di archiviazione, ordinando nuove indagini. Ma la seconda richiesta è stata accolta, chiudendo definitivamente il caso italiano. Le autorità colombiane hanno sempre sostenuto la tesi del suicidio, nonostante le evidenti contraddizioni.
Le domande senza risposta
L’archiviazione del caso non cancella le domande che continuano a tormentare chi cerca la verità sulla morte di Mario Paciolla. Cosa è successo davvero nella riunione del 9 luglio? Perché era presente l’agenzia ONU antidroga? Chi ha preso i quaderni di Mario e cosa c’era scritto? Perché Thompson ha distrutto le prove? Cosa sapeva Mario che lo rendeva così pericoloso da dover essere eliminato?
E soprattutto: è possibile che un giovane cooperante, che aveva dedicato la sua vita ad aiutare gli altri, che stava cercando disperatamente di tornare in Italia, che aveva progetti per il futuro, si sia davvero tolto la vita in modo così complicato e contraddittorio?
Un caso che interroga la cooperazione internazionale
La vicenda di Mario Paciolla solleva interrogativi che vanno oltre il singolo caso. Qual è il prezzo della cooperazione internazionale in contesti ad alto rischio? Come vengono protetti i cooperanti che operano in zone di conflitto? Cosa succede quando gli interessi geopolitici ed economici si scontrano con la missione umanitaria?
Il caso di Mario dimostra quanto sia difficile ottenere giustizia quando si intrecciano interessi di narcotraffico, accordi di pace fragili, dinamiche internazionali complesse. La Colombia rimane uno dei Paesi più pericolosi al mondo per gli attivisti sociali e i difensori dei diritti umani. Dal 2016, anno degli accordi di pace, sono stati uccisi oltre 300 ex guerriglieri delle FARC e centinaia di leader sociali.
Mario Paciolla era uno di quelli che credeva che la pace fosse possibile, che la giustizia sociale potesse vincere sulla violenza. La sua morte, avvolta ancora nel mistero, rappresenta la sconfitta non solo di una famiglia che cerca giustizia ma di tutti coloro che credono che la cooperazione internazionale possa davvero cambiare il mondo.
A Napoli, sulla facciata del liceo Vittorini dove Mario aveva studiato, campeggia un murales che lo ritrae sorridente. È diventato un simbolo per tutti coloro che non si arrendono alla versione ufficiale dei fatti, che continuano a chiedere verità e giustizia.

L’archiviazione del caso segna la fine del percorso giudiziario ma non la fine della battaglia per la verità. La famiglia Paciolla ha annunciato che continuerà a lottare, che non accetterà mai che la morte del figlio venga catalogata come un suicidio. “Prendiamo atto con dolore e amarezza della decisione” hanno commentato i genitori.
In una Colombia ancora segnata dalla violenza, dove la pace rimane un obiettivo fragile e la giustizia un miraggio, la memoria di Mario Paciolla continua a brillare come un faro per tutti coloro che non si arrendono all’indifferenza e continuano a credere che la verità, prima o poi, verrà a galla.
“Questo nostro impegno è diventato anche un impegno civile”, dice Anna Motta, “perché noi vogliamo che lui sia ancora vivo”. E in un certo senso, Mario Paciolla è ancora vivo, nella memoria di chi continua a lottare per la giustizia.