La notte del 26 settembre 1970 una Mini Morris gialla si disintegra contro un camion della frutta in sosta. Nello schianto muiono tutti e 5 i passeggeri, giovanissimi attivisti politici reggini. Erano gli “Anarchici della baracca” e volevano cambiare l’Italia.
ROMA – C’è una grande villa in stile liberty alla periferia di Reggio Calabria. Un palazzone costruito come alloggio d’emergenza dopo il terremoto del 1908 e poi abbandonato. È il 1970 e quel villone di inizio novecento da qualche tempo che ha ripreso a vivere, a respirare. Da alcuni mesi infatti ci sono diversi ragazzi che frequentano quel posto, tutti giovanissimi. C’è chi ha vent’anni e chi a vent’anni non ci è ancora arrivato. Le loro voci si levano verso i soffitti finemente stuccati e si rincorrono riecheggiando nei corridoi vuoti. Sono voci che parlano di politica, di corruzione, di eversione nera e di come cambiare il Paese. Li chiamano gli “Anarchci della baracca” per via della loro base operativa.
La notte del 26 settembre 1970 cinque di quei giovanissimi lasciano il pesante portone di legno alle loro spalle dopo essere usciti dalla “baracca”. Sono quattro ragazzi e una ragazza, il più vecchio, Luigi Lo Celso, ha 26 anni, i più giovani, Annalise Borth e Franco Scordo, ne hanno 18. Uno di quei giovani attivisti politici tiene stretto a sé un faldone di cuoio marrone che sembra rompersi da un momento all’altro, zeppo com’è di documenti. I cinque giovani si stanno dirigendo verso una Mini Morris di colore giallo. Per loro la sera del 26 settembre non sarà una serata qualunque. Dentro quel faldone di cuoio marrone, stretto forte al petto di uno di quei ragazzi, ci sono documenti che possono far tremare l’intera nazione.
Grazie a serrate indagini e a fonti anonime il collettivo della “baracca” è riuscito a ricostruire il fil rouge che collega la stagione stragista dell’eversione nera ai vertici dello Stato. Fra i torbidi impicci descritti sulle carte spicca anche la collaborazione esterna della ‘ndangheta. La Mini Morris gialla parte in direzione della Capitale, 700km che separano gli anarchici dalla redazione del giornale “Umanitá Nova”, con cui avevano preso accordi per la consegna dei documenti e dall’avvocato Di Giovanni, collaboratore alla contro-inchiesta di Piazza Fontana. Il viaggio che avrebbe potuto cambiare l’italia purtroppo s’interrompe bruscamente a 58km da Roma, tra Ferrentino e Frosinone. L’auto tampona violentemente un camion della frutta parcheggiato a bordo strada a luci spente. Angelo Casile, Franco Scordo e Luigi Lo Celso muoiono sul colpo, Gianni Arricó e Annalise Borth moriranno poco dopo in ospedale.
La dinamica dei fatti
Lo spontaneo quanto ingenuo desiderio dei 5 anarchici di scuotere il Paese dalle fondamenta finisce dunque alle 23.25 di quel maledetto 26 settembre 1970, accartocciato tra le fredde lamiere della Mini Morris sopra la quale viaggiavano. Tutto succede in un istante, forse un momento di distrazione, un tentennamento, l’auto dei ragazzi s’infila ad alta velocità sotto il paraurti posteriore del camion. E non c’è scampo per nessuno. Le indagini proseguono fino al 28 gennaio 1971 quando la Procura di Frosinone, competente per territorio, archivia il caso come incidente stradale, caso che non verrà mai riaperto. A molti però la faccenda dell’incidente non convince affatto, ci sono troppe cose che non tornano sulla “scena del crimine”: i fari del camion intatti, la posizione della Mini e non solo. Come avrebbero fatto i cinque giovani a non accorgersi di quel grosso automezzo fermo sulla loro destra? I dubbi sono tanti. Soprattutto perché il faldone di cuoio marrone, quello che contiene la bomba che può far saltare in aria il Bel Paese, così importante da esser tenuto stretto al petto, non c’è più.
Il dossier esplosivo
Per capire a fondo questa vicenda, per leggere tra le torbide righe che la costituiscono, bisogna necessariamente essere a conoscenza di ciò che il presunto dossier svanito nel nulla avrebbe dovuto contenere. Secondo il collettivo anarchico reggino e i testimoni che erano a conoscenza di quei documenti scottanti (la madre di Gianni Aricó afferma che sentì dire dal figlio che quelle carte avrebbero fatto: ”tremare l’Italia”) si trattava di controinchieste accreditate che riguardavano alcuni dei più gravi fatti di sangue che avevano sconvolto l’Italia negli ultimi anni.
In quel dossier si parla del treno Freccia del Sud di Gioiatauro, si parla di Piazza Fontana e di una catena di comando che da Reggio Calabria conduce fino a Roma, fino al disegno golpista del principe Junio Valerio Borghese. Si parla di ‘ndrangheta e apparati dello Stato cosiddetti “deviati”, si parla di strategia della tensione e guerra fredda, e di altro. Insomma, se così fosse, quei fogli scomparsi avrebbero potuto tranquillamente spazzare via i vertici dello Stato. Nel 2001, dopo anni di silenzio, sarà il procuratore Salvo Boemi, responsabile della direzione Antimafia calabrese, ad avvallare la tesi dei documenti sottratti. E dirá a proposito: “Sono convinto che quei cinque giovani avessero trovato dei documenti importanti. Non riesco a spiegarmi in altro modo la sparizione di tutte le carte che si trasportavano nella loro utilitaria. È un caso che avrei desiderato approfondire […]ma esistono insormontabili problemi di competenza”. Se veramente quel dossier esiste allora dove si trova? Chi l’ha fatto sparire?
Anomalie e coincidenze
Come detto in precedenza la prima anomalia che saltava all’occhio durante i rilevamenti scientifici era stata l’incompatibilità dei danni alle vetture incidentate con la dinamica descrita dei fatti. Il magistrato Fazioli, giunto sulla scena della strage, constatava come l’autotreno si trovasse: “Sulla normale corsia di marcia, tutte le luci sono funzionanti ad eccezione del gruppo (stop, lampeggiatore e posizione) del rimorchio, che è spento pur non essendo rotti i vetri dei fanalini”. Un’altra anomalia può essere riconosciuta nel repentino intervento della polizia di Roma, nonostante non avesse ricevuto alcuna chiamata e senza alcun motivo di accorrere in quel di Ferrentino alle 23.25 del 26 settembre 1970. Quest’ultimo riscontro viene portato all’attenzione nelle svariate inchieste indipendenti realizzate sulla morte dei 5 anarchici, vedendolo come prova che la Mini Minor diretta verso la Capitale fosse stata seguita fin dall’inizio del viaggio.
C’è anche una strana chiamata che il padre di Lo Celso aveva ricevuto il giorno prima che il figlio partisse per Roma. La telefonata proveniva da un amico poliziotto che invitava l’uomo a dissuadere il figlio dal partire per Roma il giorno seguente, altra stranezza fra le tante. E che dire dei due camionisti coinvolti nell’incidente e che risultarono essere dipendenti di una ditta facente capo al principe Junio Valerio Borghese? Il nobile nero della X MAS e futura guida del tentato golpe che avverrà da lì a pochi mesi e il cui piano sarebbe stato ampiamente descritto tra le pagine dei documenti scomparsi? Inoltre a dirigere la primissima inchiesta della polizia c’era anche Crescenzio Mezzina, secondo indiscrezioni uno dei tanti partecipanti al futuro colpo di Stato.
Le rivelazioni
“Faccio affidamento alla testimonianza di Giacomo Ubaldo Lauro (pentito di ‘ndrangheta, elemento chiave della riapertura dell’indagine su Gioia Tauro nel 1993): si è trattato di un attentato, di un incidente simulato. O meglio: di una strage per coprire un’altra strage”. Queste le parole rilasciate all’Espresso nel 2020 da Fabio Cuzzola, autore del libro “Cinque anarchici”, libro-inchiesta che esamina dettagliatamente il caso questione. L’autore afferma altresì che: “A dispetto dell’età, i ragazzi erano scaltri, avevano fra le mani prove che coinvolgevano neofascisti e ‘ndrangheta. All’epoca la mafia in Calabria era relativamente giovane, rurale, e la destra eversiva la utilizzava come manovalanza negli attentati: andò così, il 22 luglio. E l’avevano capito”. Tuttavia il piano dei cinque attivisti era stato fatto saltare con una certa facilità: ”come altri anarchici erano tenuti sotto controllo dai servizi segreti (due di loro erano stati anche ascoltati dal giudice per i fatti di Piazza Fontana). Tant’è che, prima di partire, i cinque coetanei avevano già spedito una copia dell’inchiesta a Di Giovanni, ovviamente mai recapitata. L’originale, invece, è stata fatta sparire dopo l’incidente”.
Un altro scrittore, Carlo Lucarelli, occupatosi anch’egli del caso de “Gli Anarchici della baracca”, sintetizza in poche e lapidarie parole cos’è rimasto oggi di tutto quel sangue versato: “È un mistero dimenticato, talmente oscuro, talmente misterioso, che per tanto tempo nessuno ne ha saputo niente, dissolto quasi, coperto dalle nebbie nere di tanti altri grandi Misteri d’Italia”. Un mistero che copre altri misteri, una strage che copre altre stragi. Un’aforisma di Leopardi sembra aver accompagnato l’Italia per tutta la storia della sua giovane Repubblica: “Il genere umano non odia mai tanto chi fa del male, né il male in sé stesso, quanto chi lo nomina.”.