“Pomodori rosso sangue”, il libro di Diletta Bellotti fa un viaggio nel caporalato

Il caso del bracciante indiano Satnam Singh ha riacceso il dibattito sul fenomeno: tra sistemi ricattatori e vuoti istituzionali.

Il capolarato continua ad imperversare! Nel giugno scorso è balzato agli… orrori della cronaca il caso del bracciante indiano Satnam Singh, abbandonato davanti la sua abitazione con un braccio staccato a Latina, dal suo aguzzino, perché definirlo datore di lavoro è un vero obbrobrio. Il povero cristo aveva subito il tranciamento di un braccio rimasto impigliato in un macchinario agricolo ed è morto per emorragia.

Il caso ha riaperto il dibattito sul fenomeno del caporalato, che esiste da sempre, ma se ne parla solo quando accade qualche tragedia. Si tratta, com’è noto, di una forma illegale di organizzazione e reclutamento della manodopera nel lavoro dipendente, soprattutto agricolo. I braccianti fagocitati in questo meccanismo di sfruttamento sono costretti a turni massacranti e a versare una percentuale del loro compenso ai cosiddetti “caporali”, gli intermediari che li assumono per un periodo determinato, senza rispetto alcuno delle regole di assunzione e dei diritti dei lavoratori.

Il caporalato è ben raccontato dal libro di Diletta Bellotti, ricercatrice e attivista in diritti umani e migrazioni, “Pomodori Rosso Sangue”. Nel 2019 ha lanciato la campagna dallo stesso titolo del libro, per informare, sensibilizzare e mobilitare contro lo sfruttamento della manodopera in agricoltura. Il libro parla del fenomeno in presa diretta e sono emersi baraccopoli fatiscenti e le condizioni inumane di vita di quelli che sono dei veri e propri invisibilizzati (resi invisibili) e di sopravvissute alle violenze sessuali. C’è da segnalare che nel nostro ordinamento esiste una legge per il contrasto del caporalato, la Legge 199/2016 “Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero e dello sfruttamento del lavoro in agricoltura”, volta a contrastare il fenomeno criminale del caporalato e ad introdurre nuove forme di supporto per i lavoratori stagionali in agricoltura.

Beh, come ci racconta la cronaca quotidianamente, si tratta di disposizioni disattese, in quanto i numeri raccontano altro. Nel caso dei caporali, senza voler ripristinare un linguaggio vetero-marxista, è più corrispondente ai fatti utilizzare il termine di “padroni” che utilizzano i braccianti come schiavi. La morte del bracciante indiano ha avuto un profondo effetto mediatico, a cui sono seguiti nuovi casi di sfruttamento un po’ sul tutto il territorio nazionale, senza distinzioni di sorta.

Al clamore mediatico si sono associate varie manifestazioni di protesta, organizzate da partiti e sindacati, che finora hanno voltato il capo dall’altra parte facendo finta che il problema non esistesse ed ora hanno cercato di strumentalizzare la protesta. Si tratta di un sistema ben consolidato che si perpetra da sempre, radicato nella struttura socioeconomica del nostro Paese.

Il caporalato è inserito in un contesto globalizzato, collegato ai supermercati e alla Grande Distribuzione Organizzata (GDO). Il bracciante agricolo è l’anello più debole della catena, quello che paga il prezzo più elevato. Inoltre, questo fenomeno è collegato alle leggi migratorie, alla gestione dei confini e giro di vite o meno, i senza speranza arrivano comunque sulle nostre coste. Forse sarebbe utile togliere la dipendenza tra permesso di soggiorno, lavoro e affitto, perché si palesano sistemi ricattatori e vuoti istituzionali, terreno fertile per il proliferare delle mafie. Come si rende necessaria una revisione della gestione dei subappalti, che, nei fatti, possono essere considerati subappalti legalizzati. Una società che si ritiene civile, non può sopportare un fenomeno di sfruttamento come il caporalato, altrimenti civile non è!

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