Cresce il numero di chi affronta da solo la quotidianità: allora avanza la sindrome raccontata – ironicamente – nel Diario di Bridget Jones.
Roma – Il concetto di “famiglia” è stato sempre caratterizzato da una forte dinamismo, mutato, quindi, nel tempo e nello spazio. Questo microsistema sociale, secondo la sociologia, è un nucleo sociale costituito da due o più persone legate tra loro da rapporti di parentela o di affinità. Negli ultimi tempi si è assistito alla crescita di famiglie composte da una sola unità, cosiddette “single”. A questa peculiarità, divenuta tipica delle società avanzata, si è aggiunto il timore di restare da soli. Restare senza un compagno/a provoca disagio, ansia, angoscia e la tendenza a stabilire relazioni amorose, spesso, inadatte per sé stessi. Perché se esistono persone che scelgono di vivere da soli, ce ne sono tante altre vittime di questa condizione, che la psicologia moderna definisce come “anuptafobia”.
Si tratta di un neologismo emerso durante il primo decennio del nuovo millennio, in cui si affermò anche il “Fear of Being Single Scale” (FOBS), uno strumento psicologico per valutare e misurare l’apprensione o l’ansia di un individuo di un individuo single e senza legami. Malgrado il numero di “single” siano in crescita, non sono mutate le aspettative sociali, per cui si si aspetta che una persona debba vivere in coppia. Si debba “sistemare”, come si soleva dire una volta.
L’anuptafobia è conosciuta anche come “sindrome da Bridget Jones”, la protagonista del romanzo “Il diario di Bridget Jones” di Helen Fielding, la storia di una 30enne single di Londra che cerca di dare un senso alla sua vita, ai suoi amori e alle relazioni con l’aiuto della “famiglia urbana” di amici. La sindrome si manifesta come il timore di non riuscire a trovare la “persona giusta”, da cui scaturisce il timore della solitudine e dipendenza affettiva. Inoltre, nonostante la crescita dei “single”, non è calata, al contrario, la disapprovazione sociale nei loro confronti. Non solo manifestata da amici e famiglia d’origine, ma anche, ad esempio, nel cinema, in cui le commedie, spesso terminano col classico lieto fine e hanno incrementato l’idea che un single, ad un certo punto della sua vita debba mettere la “testa a posto”, come si diceva un tempo.
Uno dei comportamenti diffusi è il ritenere che si debba uscire solo per fare conoscenza, senza vivere con spensieratezza una serata con gli amici. Si diventa succubi della necessità di incontrare per forza un’altra persona, immiserendo le altre relazioni. Inoltre, spesso si risponde in maniera irata a certe domande, tralasciando il fatto che se sono fatte da amici fidati, possono essere utili a comprendersi. Infine, un’altra caratteristica che spicca è quella di cercare di essere, comunque, in coppia. Se finisce una relazione, se ne comincia subito un’altra, senza comprendere perché una storia sia finita.
Gli effetti di questa sindrome, secondo gli esperti, si manifestano nel vivere con ansia la propria solitudine e, al contrario, nel “buttarsi” in qualsiasi relazione pur di non restare soli, diventando dipendente dell’altra persona. Per uscire da questa situazione, il primo passo da compiere è capire fino a che livello è giunta la sindrome e nel caso rivolgersi ad uno specialista. In secondo luogo, è importante avere uno sguardo a 360 gradi e non concentrarsi solo sull’amore, ma allargare gli orizzonti per trovare altri interessi. Non vivere la propria condizione di single come una condanna, ma come una possibilità, offre l’occasione di spostare l’attenzione dall’amore, vissuto quasi come un’ossessione ad altro. E’ vero che il “logorio della vita moderna”, come recitava uno spot degli anni ’60, determina relazioni superficiali, in quanto non si ha tempo nemmeno per… pisciare, ma è altrettanto vero che, per non essere sopraffatti, bisogna lasciarsi andare. Altrimenti è la fine!