I cambiamenti climatici, nell’ultimo decennio, hanno provocato una serie di disastri ambientali e umani che hanno costretto all’emigrazione forzata una media di 21,5 milioni di persone all’anno.
Roma – Quelli relativi all’emigrazione forzata sono numeri terrificanti, più del doppio di quelli riferiti alle persone che scappano da guerre e violenze, diffusi dall’UNHCR, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati. Eppure per il diritto internazionale i “migranti climatici” non esistono, sono invisibili, non riconosciuti come rifugiati. Ma sono tali anche per l’opinione pubblica e lo storytelling mediatico.
Vengono utilizzati linguaggi stereotipati, senza puntare alla vera causa del fenomeno. Bisognerebbe aggiornare anche la normativa, che appare obsoleta. Per essere riconosciuto come rifugiato, ci si avvale ancora della Convenzione di Ginevra, firmata nel dopoguerra. Offriva una connotazione giuridica a sfollati o profughi della seconda guerra mondiale o della guerra fredda. In pratica, la normativa ritiene valido solo il rifugiato per motivi umanitari, mentre quello per motivi economici scaturiti da catastrofi climatiche, non viene preso in considerazione.
Un cambio di rotta repentino sarebbe auspicabile, visto che i migranti climatici, ormai, sono la maggioranza. Inoltre, l’intervento si fa ancora più urgente considerando che questi eventi catastrofici non dipendono dal destino cinico e baro, ma da precise responsabilità politiche, con lo sfruttamento parossistico delle risorse naturali da parte dei Paesi più ricchi.
Negare il fenomeno è come nascondere la polvere sotto il tappeto, per occultare il problema che, prima o poi, si ripresenta con più veemenza. Con i mutamenti del clima, si inaspriscono altri fattori deleteri. Carenza di cibo, instabilità sociale e politica partoriscono guerre civili o tra Stati. Ecco, quindi, che le migrazioni diventano l’unica strada percorribile.
Già nel 2019, il report: “Il clima come fattore di rischio per i conflitti armati” pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica inglese Nature evidenziava che il 20% dei conflitti del secolo scorso è stato causato dal clima. Da allora c’è stato un ulteriore incremento. Infatti, secondo l’UNHCR:
“A livello mondiale, nel 2021 circa 193 milioni di persone si trovavano in condizioni di grave insicurezza alimentare e necessitavano di assistenza urgente – un numero mai registrato prima – in 53 Paesi, con un aumento di quasi 40 milioni di persone rispetto al picco precedente raggiunto nel 2020”
Il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’ONU (IPCC) ha rivelato che “oltre il 40% della popolazione mondiale vive in zone estremamente vulnerabili ai cambiamenti del clima”.
Mentre il rapporto di Legambiente – associazione ambientalista nata negli anni ’60 del secolo scorso, erede dei primi movimenti ecologisti e antinuclearisti italiani – dall’eloquente titolo “Migranti ambientali, gli impatti della crisi climatica”, pubblicato l’anno scorso, ha segnalato come
“L’Africa occidentale, centrale e orientale, l’Asia meridionale, l’America centrale e meridionale, i piccoli stati insulari in via di sviluppo e l’Artico: in queste aree, tra il 2010 e il 2020, la mortalità umana a causa di eventi estremi è stata 15 volte superiore rispetto a regioni che presentano una minore vulnerabilità”.
Finanche la banca mondiale, cuore pulsante del capitalismo economico e finanziario, in un suo report del 2021 ha sostenuto:
“… a causa della crisi climatica, entro il 2050, 216 milioni di persone in sei diverse regioni del mondo potrebbero essere costrette a spostarsi”
Da cronisti prendiamo atto e registriamo ciò che accade nel mondo. Da cittadini siamo stanchi di annotare l’inerzia di chi dovrebbe prendere delle decisioni, avendo una serie di strumenti per farlo. Come sempre, a pagare sono sempre i poveri cristi, come i migranti climatici, veri figli di nessuno!