Ricorre oggi il 45° anniversario dell’assassinio di Giuseppe “Peppino” Impastato per mano mafiosa. Il suo coraggio, la sua visione e il suo messaggio sono semi preziosi da preservare e coltivare nella lotta contro Cosa nostra e non solo.
Palermo – Una data intrisa di sangue e di dolore per l’Italia. È il 9 maggio 1978 quando venivano ritrovati i cadaveri di due persone a distanza di centinaia di chilometri. Il primo è nel bagagliaio di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani, nel centro di Roma. Il secondo, o quello che ne resta, è sparso lungo la ferrovia che costeggia Cinisi, paesino in provincia di Palermo, dilaniato dal tritolo. Stiamo parlando di Aldo Moro, nel primo caso, e di Giuseppe Impastato, detto Peppino, nel secondo. Due morti che in modi diversi hanno marcato la deriva che il Bel Paese avrebbe poi intrapreso nel corso degli anni.
Di Moro si sa quasi tutto (laddove quel “quasi” è mastodontico), di Impastato meno. Ed è per questo che è di Peppino che vogliamo parlare oggi, nel giorno del 45° anniversario della sua morte. Una morte “annunciata” si dirà, “Se l’è cercata” biascica la vile mandria omertosa, paesani compresi. Ma Peppino può essere definito uno dei pochi veri, genuini eroi dell’antimafia. L’antimafia che agisce e che non le manda a dire, l’antimafia che non si bea delle sue azioni, l’antimafia che non lucra su quello che dovrebbe essere un dovere sociale e non un business. L’antimafia che non conosce fondazioni, festival o passerelle.
Peppino vuole combattere la mafia, faccia a faccia. E lo fa a ragion veduta perché nasce da una famiglia legata a Cosa nostra. Il padre Luigi infatti ne faceva parte, ancor di più lo zio, potentissimo capomafia del paese (volle e ottenne la costruzione dell’aeroporto di Punta Raisi, per capirci) che viene ucciso nel 1963 in una guerra tra clan. Peppino ha 15 anni e in quel preciso istante capisce che quell’ambiente, nel quale era cresciuto, gli fa schifo. Nauseato da quest’aria macilenta e da quello che era sotto gli occhi di tutti, ma nessuno aveva il coraggio di combattere e denunciare, sceglie la strada della lotta aperta, per combattere la criminalità organizzata che imperava in Sicilia.
Per lui quindi si tratta di una doppia, enorme sfida: contro la famiglia e contro la mafia. Lo fa da signor nessuno, alle spalle non ha corpi di polizia, magistratura o associazioni potenti. In vista delle elezioni comunali di Cinisi, previste per il settembre 1978, Peppino decide di candidarsi e lo fa scegliendo il partito più estremo: Democrazia Proletaria. Il suo bersaglio principale è ‘u Zu Tano, al secolo Gaetano Badalamenti, capo mafioso importantissimo, autentico mammasantissima, la cui abitazione dista 100 passi da quella di Impastato. Distanza che darà il nome ad un bellissimo film sulla vita di Peppino, diretto da Marco Tullio Giordana.
Peppino Impastato inventa un metodo nuovo e originale per combattere la mafia. Nel 1977 apre infatti una radio a Terrasini, paese limitrofo a Cinisi, e la chiama Radio Aut. Aut in latino significa “oppure”, a testimoniare la volontà e l’urgenza di diffondere notizie alternative a quelle dei media canonici, divulgando informazioni che mostrano una realtà ben diversa da quella percepita. All’epoca la radio ricopriva il ruolo che oggi è svolto dal Web e si proponeva di raggiungere soprattutto i ragazzi, humus vitale della società. E il venerdì sera andava in onda la trasmissione di punta di Radio Aut: Onda Pazza, che utilizzava la satira per denunciare i malcostumi mafiosi nel territorio di Cinisi e dintorni.
Con il sarcasmo e gli sfottò Peppino colpiva e denunciava picciotti e uomini d’onore, raccontando con tono canzonatorio le avventure di Mafiopoli, paese di fantasia, popolato da personaggi bizzarri che trovavano riscontro nella cruda realtà di Cosa nostra siciliana, capeggiati da Tano Seduto. Erano anni in cui nessuno osava parlare di mafia.
Peppino faceva fare ai mafiosi la figura dei fessi, deridendoli. Con questo stile ironico, Peppino, da autentico precursore, denunciava il mutamento che la mafia aveva avuto negli anni ’70, passando da una dimensione rurale ad una urbana, fatta di infiltrazioni negli appalti e operazioni selvagge di edilizia abusiva. Impastato aveva con netto anticipo prefigurato e svelato gli scenari che la mafia avrebbe messo in atto negli anni a venire.
E questo gli costa la vita. Vicino ai binari della linea Palermo-Trapani è percosso a colpi di pietra e il suo corpo fatto saltare con il tritolo. La sua morte, siamo negli anni bui degli attentati e delle stragi, viene fatta passare come il goffo gesto di un terrorista inesperto e invasato o di suicidio. Emergerà poi il dolo, questo sì, maldestro, da parte delle Forze dell’ordine nel depistare le indagini. Ed è come se Peppino fosse stato ucciso una seconda volta. Fin troppo palese infatti la matrice mafiosa di un omicidio in piena regola.
È solo grazie all’immenso e mai abbastanza celebrato lavoro di due giudici, Rocco Chinnici e il suo successore Antonino Caponnetto, che viene finalmente riconosciuto l’omicidio di Peppino per mano di ignoti mafiosi. Poi la svolta: Il 5 marzo 2001 la Corte d’Assise riconosce Vito Palazzolo colpevole dell’omicidio di Peppino e lo condanna a 30 anni di reclusione. L’anno dopo arriva l’ergastolo per Tano Badalamenti, il mandante. Nel 2010 le chiavi della sua casa sono consegnate all’Associazione culturale Impastato.
Il lascito più importante di Peppino è che per combattere la mafia l’arma più importante è formata dalle 3 C: coraggio, cultura e conoscenza. Qualità in via di estinzione. Nel 1983, 5 anni dopo Peppino, Rocco Chinnici muore nella sua 126 riempita con il medesimo tipo di tritolo. Ma questa forse è un’altra storia. Anzi, è sempre la stessa.