L’assassinio del procuratore capo di Palermo, eliminato insieme all’agente all’agente Antonio Lorusso, inaugura una tragica stagione di attacchi agli uomini delle istituzioni.
Palermo – Il 5 maggio 1971 è una data spartiacque nella storia dell’assalto mafioso alle istituzioni democratiche. Con l’assassinio di Pietro Scaglione, Procuratore capo della Repubblica, e del suo autista, l’agente di custodia Antonio Lorusso, per la prima volta dal dopoguerra Cosa Nostra si intesta un omicidio “eccellente” di un magistrato, inaugurando una tragica stagione di attacchi sistematici agli uomini delle istituzioni, un disperato crescendo culminato con l’eliminazione di Falcone e Borsellino.
Originario di Lercara Friddi, in provincia di Palermo, dove era nato nel marzo del 1906, Pietro Scaglione era entrato in magistratura nel 1928, dimostrando fin da subito indipendenza e rigore, anche durante il ventennio fascista. La sua carriera lo portò a occuparsi di alcuni dei casi più complessi della Sicilia postbellica. Come sostituto procuratore, indagò sulla strage di Portella della Ginestra (1947), definendola un “delitto infame” legato alla difesa del latifondo e alla lotta contro il comunismo. Fu anche il magistrato incaricato dell’istruttoria sull’avvelenamento di Gaspare Pisciotta, luogotenente di Salvatore Giuliano, sottolineando il movente mafioso del crimine.

Negli anni ’50, Scaglione si distinse per le requisitorie contro gli assassini del sindacalista Salvatore Carnevale, evidenziando il ruolo della mafia nel mantenere il sistema latifondista. Divenuto procuratore capo di Palermo nel 1962, intensificò le indagini sulla cosca corleonese, chiedendo il rinvio a giudizio di Luciano Liggio per l’omicidio di Placido Rizzotto e sostenendo l’accusa per altri delitti. Scaglione fu tra i primi a intuire la pericolosità dei Corleonesi e a sostenere che la mafia avesse radici politiche, con i suoi vertici nascosti nelle pubbliche amministrazioni. Si occupò anche della strage di Ciaculli (1963) e della scomparsa del giornalista Mauro De Mauro (1970), un caso su cui la sua procura lavorò con impegno, come testimoniato dalla vedova De Mauro.
La mattina del 5 maggio 1971, Scaglione seguì la sua consueta routine: si recò al cimitero dei Cappuccini per pregare sulla tomba della moglie Concetta, scomparsa nel 1967. Accompagnato da Antonio Lorusso, 42 anni, appuntato del Corpo degli Agenti di Custodia, era a bordo di una Fiat 1300 nera. Intorno alle 10:55, mentre percorrevano via dei Cipressi, una strada stretta e popolare, una Fiat 850 bianca affiancò l’auto, bloccandola contro il marciapiede. Due o tre sicari aprirono il fuoco con pistole calibro 9mm e 38 Special, e forse un mitra, secondo le perizie balistiche. Scaglione fu colpito alla testa, al braccio e alla mano; Lorusso al petto. Entrambi morirono sul colpo.
L’agguato, avvenuto in pieno giorno in una zona popolata, non trovò testimoni oculari, un segno dell’omertà che dominava Palermo. I primi a intervenire furono il commissario Boris Giuliano e il generale dei Carabinieri Angelo Campanella, accompagnato dall’autista Rocco Lorusso, fratello di Antonio, che riconobbe con orrore il corpo del congiunto. L’omicidio fu un salto di qualità per Cosa Nostra: dopo l’assassinio di Emanuele Notarbartolo nel 1893, nessun altro uomo delle istituzioni era stato colpito così apertamente.
Le indagini, affidate al Tribunale di Genova per “legittima suspicione”, si rivelarono complesse. La mancanza di testimoni e le difficoltà di un’epoca in cui la legislazione antimafia era inadeguata ostacolarono il lavoro degli inquirenti. Nel 1984, il pentito Tommaso Buscetta, parlando con Giovanni Falcone, definì Scaglione un “magistrato integerrimo” e indicò Luciano Liggio e Salvatore Riina come mandanti, con il placet di Pippo Calò. Secondo Buscetta, l’omicidio aveva tre obiettivi: eliminare un procuratore scomodo, gettare sospetti su mafiosi rivali e riaffermare il potere di Cosa Nostra dopo le assoluzioni dei processi di Catanzaro e Bari (1969). Il pentito Antonino Calderone collegò il delitto a un contesto di azioni eversive post-Golpe Borghese, suggerendo connivenze con “pezzi” dello Stato.

Un’ipotesi alternativa, avanzata da Giuseppe Di Cristina, puntava a un conflitto tra Liggio e il gruppo di Gaetano Badalamenti, legato alla vicenda di Serafino Battaglia. Tuttavia, nel 1991, il giudice istruttore di Genova Dino Di Mattei prosciolse tutti gli indagati (tra cui Liggio, Riina, Calò, Gaetano Fidanzati e Gerlando Alberti) per mancanza di prove convincenti, come armi o testimonianze dirette. Il caso rimase insoluto, ma i moventi furono ricondotti all’attività di Scaglione: vendetta per le sue inchieste, prevenzione di future indagini e un segnale intimidatorio alle istituzioni.
L’omicidio avvenne in un periodo di transizione per Cosa Nostra, dopo la “pax mafiosa” (1963-1968) seguita alla strage di Ciaculli. La strage di viale Lazio (1969) e la scomparsa di De Mauro avevano già mostrato un’escalation criminale. Gli atti desecretati dalla Commissione Antimafia nel 2020, firmati anche da Carlo Alberto Dalla Chiesa e Boris Giuliano, descrivono un contesto di “grossissimi interessi” politico-economici legati alla mafia. L’omicidio di Scaglione fu un messaggio: Cosa Nostra non era intimidita dalla repressione giudiziaria, come scrisse Falcone.
Subito dopo il delitto, Scaglione fu vittima di una campagna di delegittimazione. Si insinuò che fosse colluso, soprattutto per la fuga di Liggio da una clinica romana nel 1970, nonostante Scaglione avesse agito correttamente. Queste calunnie, tipiche dei delitti eccellenti, furono smentite da Buscetta e da sentenze che ne riconobbero l’integrità. Il suo omicidio segnò l’inizio di una serie di attacchi contro magistrati, culminati nelle stragi di Falcone e Borsellino. Il Consiglio Superiore della Magistratura, l’11 maggio 1971, alla presenza del presidente Giuseppe Saragat, condannò il delitto come un attentato alle istituzioni. Nel 1991, Scaglione e Lorusso furono riconosciuti “vittime del dovere e della mafia”; nel 2022, ricevettero la Medaglia d’Oro al Merito Civile. Il presidente Sergio Mattarella, nel 2021, li definì “autentici servitori dello Stato”.
Scaglione anticipò intuizioni fondamentali sulla natura politica della mafia e sulla necessità di colpire le sue connessioni istituzionali. La sua morte, come ricordato da Paolo Borsellino, fu parte di una strategia per eliminare investigatori scomodi, il primo segnale che Cosa Nostra era pronta a sfidare lo Stato con una violenza senza precedenti.