Una donna cancellata dal silenzio e dal fuoco, vittima di un amore malato e di un’indifferenza istituzionale che per troppo tempo ha ignorato i segni della sua scomparsa. Sullo sfondo, un’indagine ostacolata da bugie e depistaggi.
Castel Volturno – Nella notte tra il 7 e l’8 settembre 1999, Katiuscia Gabrielli – per tutti Katia – 25 anni, madre di due bambini piccoli e convivente di Giuseppe Cervice, scompare da Castel Volturno. La mattina dell’8, la giovane non è più in casa, un’abitazione al secondo piano sopra la pizzeria “Da Peppe e Katia”, che gestiva con il compagno. Non ci sono telefonate, né messaggi. Non lascia istruzioni, non chiede dei suoi figli, con cui ha un legame strettissimo. Da quel momento, il suo nome diventa una presenza inquietante. Inizialmente la sua assenza viene archiviata come un allontanamento volontario. Ma sin da subito emergono segnali che indicano tutt’altro.
Giuseppe Cervice si reca dai carabinieri a presentare denuncia soltanto due giorni dopo, il 9 settembre. Secondo le testimonianze dei familiari di Katia, appare calmo, distante, quasi rassegnato. Racconta che Katia è uscita a piedi, portando con sé un marsupio contenente denaro contante e le chiavi dell’appartamento. Ma già da quel momento le sue versioni iniziano a contraddirsi. In alcune ricostruzioni sostiene di essere salito in casa dopo averla vista l’ultima volta; in altre afferma che lei se n’è andata mentre lui dormiva. In altre ancora aggiunge dettagli che non coincidono con i racconti dei testimoni, come l’orario della presunta partenza o la presenza del marsupio.

Questa incertezza, anziché stimolare immediate verifiche approfondite, genera solo un primo esposto da parte della madre della ragazza, Immacolata Aimone, che nutre sin da subito forti sospetti su Cervice. Ma le istituzioni sembrano sorde. Le ricerche si avviano in ritardo, le prime indagini si archiviano. Katia, per molti, diventa un vago ricordo.
Un rapporto segnato dalla tensione
Dalla documentazione processuale e dalle testimonianze dei familiari della vittima emerge il ritratto di una relazione sbilanciata e ossessiva. Katia viveva un rapporto di sottomissione, in cui ogni movimento doveva essere autorizzato, ogni gesto ponderato alla luce del giudizio del compagno. Nonostante l’apparenza di normalità data dalla gestione condivisa della pizzeria, il controllo psicologico era costante. Cervice appariva geloso, dominante e con il tempo aveva isolato Katia anche dalla propria famiglia.
Le tensioni con i suoceri, che non vedevano di buon occhio la relazione, avevano portato Katia a vietare loro l’ingresso in pizzeria e persino il contatto con i nipoti. Una decisione radicale, che secondo i familiari nacque da un episodio umiliante in cui il padre di Cervice aveva aggredito verbalmente la giovane mentre lavava il figlio più piccolo. Katia si sentiva abbandonata anche dal suo compagno, che non prendeva mai le sue difese. Era sul punto di dire basta, di lasciare tutto. Aveva già scritto un biglietto: “Vado con i bambini a casa di mia mamma, poi da lì vado a prendere mio padre al lavoro. Ci vediamo verso le 16.00, psicologicamente preparati.” Sul retro, una frase che colpisce come un presagio: “Perché non si sa come finirà…”.

Per Giuseppe Cervice, l’idea che Katia potesse andarsene con i figli rappresentava l’annientamento del proprio potere. E questo, secondo la Corte, fu il movente dell’omicidio.
L’ombra dell’omicidio e la scomparsa del cadavere
Per più di un anno, il caso di Katia Gabrielli rimase sospeso. Solo nel 2001, grazie alla determinazione della madre e a nuove acquisizioni investigative, l’indagine venne riaperta. A quel punto emersero elementi che cambiarono radicalmente il quadro. La pizzeria venne indicata come possibile scena del crimine. Gli inquirenti scoprirono che il forno era stato sostituito dopo i fatti. Testimoni raccontarono di un denso fumo nero uscito dalla canna fumaria la notte della scomparsa, un fumo che impregnò l’aria per ore, tanto da costringere i vicini a chiudere le finestre.
Tra le prove più significative vi furono anche delle intercettazioni ambientali registrate durante le indagini. In una conversazione captata tra Giuseppe Cervice e la madre, si percepisce la donna raccomandare al figlio di abbassare la voce per non farsi sentire dal piccolo Gianluca. Cervice risponde con una frase sconcertante: “Ma l’è picciat tu e Giuvann’” (L’hai bruciata tu e Giovanni), a cui il padre replica: “Appicciai tutt’ cos’” (Bruciai tutto).
Il ruolo del carabiniere e il depistaggio
Il carabiniere Giovanni Fruggiero è il nome che ritorna più spesso accanto a quello dell’imputato. Amico stretto di Cervice, frequentava la pizzeria anche al di fuori del lavoro. Dai tabulati telefonici emerge che, nei giorni successivi alla scomparsa, i contatti tra i due furono continui e puntuali, spesso in coincidenza con atti delle indagini o interrogatori. Fruggiero, che prestava servizio proprio nella stazione che ricevette la denuncia di scomparsa, era presente in caserma durante la verbalizzazione. Secondo gli inquirenti, partecipò attivamente alla soppressione del corpo di Katia, aiutando l’amico a ottenere l’impunità. La sua posizione processuale venne separata da quella di Cervice ma il suo ruolo rimane centrale nella ricostruzione dell’occultamento del cadavere.
Il processo e la condanna
Il dibattimento che si è svolto tra il 2009 e il 2011 è stato lungo, meticoloso e complesso. Le udienze si sono susseguite con il contributo di decine di testimoni, periti, familiari, vicini di casa, amici, carabinieri, collaboratori di giustizia. Giuseppe Cervice ha scelto di non rispondere in aula, avvalendosi del diritto al silenzio. Una scelta legittima, che per i giudici ha assunto un peso specifico: il silenzio come consapevolezza di non poter giustificare le troppe contraddizioni emerse durante le indagini.

Il 13 gennaio 2011, la Corte d’Assise di Santa Maria Capua Vetere ha emesso la sentenza: 24 anni per Giuseppe Cervice, ritenuto colpevole di omicidio volontario. Una decisione fondata su prove indiziarie ma forti, coerenti e concordanti, che hanno restituito alla memoria pubblica la verità sulla fine di Katia.
Una donna cancellata due volte
Katia Gabrielli non è mai tornata a casa. Il suo corpo non è stato ritrovato, la sua voce si è spenta nel silenzio di quella notte in cui ha cercato di liberarsi da una relazione tossica. È stata cancellata una prima volta dall’uomo che non poteva sopportare la sua libertà. E una seconda volta dalle istituzioni che inizialmente hanno creduto, o preferito credere, a una fuga volontaria. La sua famiglia ha dovuto lottare per far riaprire il caso, per essere ascoltata, per non lasciare che Katia diventasse solo un volto nei manifesti strappati dal suo stesso assassino.
Oggi, a distanza di anni, resta una condanna. Resta la consapevolezza che la giustizia non sempre arriva in tempo. Resta soprattutto il dolore muto di chi ha visto una figlia, una sorella, una madre, scomparire senza lasciar traccia. E la certezza che, senza corpo, non ci sarà mai una vera sepoltura. Solo memoria, e il dovere di raccontare questa storia perché non si ripeta.
Per l’assassino di Katiuscia nessun ergastolo, nessuna aggravante per crudeltà: eppure non solo ha ucciso la sua compagna, madre dei suoi figli, ma ha anche bruciato il corpo per cancellarne ogni traccia. Con gli sconti di pena e la buona condotta, tra qualche anno potrebbe uscire dal carcere e magari tornare a sfornare pizze, come se nulla fosse. Di Katiuscia, invece, non è rimasto nulla. Neanche le ceneri.