Troppo giovani per la legge, abbastanza grandi per uccidere: l’impunità dei minori in Italia

Quattro ragazzi tra gli 11 e i 13 anni hanno travolto e ucciso una donna a Milano: la legge li dichiara non imputabili. Ma è ancora giusto così?

Milano – L’11 agosto, nel quartiere Gratosoglio di Milano, Cecilia De Astis, 71 anni, attraversava via Saponaro sulle strisce pedonali. Una Citroen DS4 a forte velocità l’ha investita in pieno, uccidendola sul colpo. A bordo c’erano quattro giovanissimi: tre maschi e una femmina, tutti tra gli 11 e i 13 anni. Dopo lo schianto, sono fuggiti a piedi senza prestare soccorso.

La Polizia Locale li ha rintracciati poche ore dopo in un campo rom alla periferia della città. L’auto, rubata il giorno prima a un turista francese, giaceva distrutta sul luogo dell’incidente. La tragedia è chiara, le responsabilità materiali pure. Eppure, nessuno di loro potrà essere processato: in Italia, chi ha meno di 14 anni non è imputabile.

Il “muro” dell’articolo 97 del codice penale

La norma è chiara: sotto i 14 anni non esiste responsabilità penale. Il legislatore parte dal presupposto che a quell’età lo sviluppo cognitivo ed emotivo non sia sufficiente a comprendere appieno la gravità delle proprie azioni. Non c’è punizione ma solo un intervento educativo: affido ai servizi sociali, colloqui psicologici, attività rieducative.

Baby gang

Il principio ha una sua logica: proteggere i bambini da un sistema penale pensato per gli adulti ma il caso di via Saponaro mostra tutta la sua fragilità. Come si concilia l’idea di una “inconsapevolezza delle proprie azioni” con ragazzi che rubano un’auto, guidano ad alta velocità e fuggono consapevolmente dopo aver causato una morte?

Tradizioni, maturità e responsabilità

Nel dibattito pubblico, c’è chi osserva che in alcune comunità – come certi gruppi nomadi – i bambini imparano da piccolissimi a commettere furti e a destreggiarsi con condotte ben più complesse di quelle di un coetaneo medio. Tra gli 11 e i 14 anni, in certi contesti, vengono perfino considerati adulti, capaci di sposarsi e assumere ruoli di responsabilità nella loro cultura di origine.

Se dunque si riconosce a questi ragazzi, per “rispetto delle tradizioni”, la maturità per contrarre matrimonio, perché non riconoscere anche la capacità di rispondere delle proprie azioni davanti alla legge?

Il rischio di un “limbo” penale

Il problema non è solo giuridico ma sociale: la non imputabilità assoluta fino ai 14 anni rischia di creare una fascia di “impunità garantita” che può essere sfruttata da adulti senza scrupoli per commettere reati per procura.

In casi come quello di Milano, l’effetto sulla percezione collettiva è devastante: la comunità vede un crimine grave e una vittima ma nessun processo e nessuna condanna.

L’auto che ha ucciso Cecilia De Astis

La fiducia nella giustizia ne esce indebolita e il messaggio che passa ai giovanissimi è ambiguo: fino a una certa età puoi fare qualunque cosa senza conseguenze penali.

Molti giuristi ed educatori restano contrari ad abbassare la soglia di imputabilità, temendo un approccio punitivo verso l’infanzia. Altri propongono una revisione graduale: mantenere la protezione per i più piccoli, ma introdurre valutazioni caso per caso tra i 12 e i 14 anni, soprattutto per reati gravi o reiterati.

Il caso di Cecilia De Astis non è solo una tragedia personale: è lo specchio di un sistema che, per difendere un principio sacrosanto – la tutela dei minori rischia di ignorare la realtà di chi a dodici anni sa benissimo cosa sta facendo e agisce con piena consapevolezza.

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