Partita con 6,3 miliardi del PNRR, la misura viene dimezzata dopo mesi di deserto. Ma appena semplificano le regole arriva la corsa: ora mancano 900 milioni.
C’è un modo particolare di trasformare una misura da bandiera in un boomerang istituzionale e il governo Meloni sembra averlo perfezionato con Transizione 5.0. Il piano che avrebbe dovuto incarnare la visione dell’esecutivo su digitalizzazione e sostenibilità energetica delle imprese si è trasformato in un manuale di cosa non fare quando si gestiscono incentivi pubblici: ritardi stratosferici, burocrazia paralizzante, comunicazioni opache e, ciliegina finale, fondi esauriti quando ancora mancano sei settimane alla chiusura ufficiale delle domande.
La storia parte da lontano, dall’estate 2023, quando il governo decide di rimettere mano al PNRR per inserirvi misure proprie. Tra i 22 miliardi di fondi riassegnati, ben 6,3 vengono destinati a Transizione 5.0: crediti d’imposta generosi per chi investe in nuovi macchinari certificando contestualmente una riduzione di consumi fossili o emissioni dannose. Bruxelles approva a novembre 2023. Tutto pronto, si direbbe. Invece no.
Passano mesi. Il ministero delle Imprese e del Made in Italy si impantana in una palude burocratica di cui non si vede il fondo. Quando finalmente, ad agosto 2024, la misura diventa operativa, le imprese si trovano davanti un labirinto kafkiano di certificazioni, documentazioni, attestazioni energetiche. Non un incentivo ma un percorso a ostacoli per specialisti. Molti rinunciano in partenza. Altri ci provano, presentano carte approssimative per aggirare le complicazioni, l’Agenzia delle Entrate fiuta l’irregolarità e scatta la repressione. Risultato: il messaggio che passa è “meglio starci lontani”.
Il governo tenta di aggiustare il tiro, modifica le regole una volta, poi un’altra, poi ancora. Ogni correzione, però, invece di chiarire genera nuova confusione. A settembre la fotografia è impietosa: su 6,3 miliardi disponibili, le domande coprono appena un miliardo. Un flop colossale. E qui l’esecutivo compie la mossa che si rivelerà fatale: taglia. Brutalmente. Dai 6,3 miliardi si scende a 2,5. I restanti 3,8 vengono dirottati altrove. Misura fallita, caso chiuso.
Peccato che contemporaneamente, dall’altra parte della scrivania, qualcuno stesse finalmente riuscendo a semplificare davvero le procedure. Consulenti e commercialisti iniziano a decifrare il meccanismo, le imprese capiscono come muoversi, partono gli investimenti. E siccome tutti credono di avere praterie davanti, visti i miliardi inutilizzati, nessuno si affretta. Poi, all’improvviso, qualcuno si accorge che i fondi non sono più 6,3 ma 2,5. Solo che nessuno l’ha comunicato chiaramente. Scatta il panico, corsa al portale, file virtuali. Il 7 novembre arriva l’annuncio che gela tutti: fondi esauriti.
Ma il caos non finisce qui. Le imprese, spiazzate, si riversano su Transizione 4.0, il piano gemello dedicato alla sola innovazione digitale. Anche quello finanziato col PNRR, anche quello con risorse limitate. Ma anche Transizione 4.0 alza bandiera bianca: finito anche questo.
Nel mezzo di questa tempesta perfetta, il ministro Adolfo Urso sale in cattedra e rivendica trionfi. Alla Camera parla di una “misura popolare, molto gradita dalle imprese, di cui non poter fare a meno”. Una narrazione che collide frontalmente con la realtà: imprese furiose, investimenti a rischio, promesse disattese. Ma tant’è.
E adesso? Ora il governo chiede alle aziende di continuare a inviare domande, promettendo che prima o poi si troveranno i soldi. Qualche giorno fa lo sforamento aveva già toccato i 900 milioni oltre la capienza, con un’accelerazione di 250 milioni al giorno. Urso garantisce che le risorse salteranno fuori, ma non dice da dove, considerando che la legge di bilancio in discussione non prevede margini significativi.
I tecnici del ministero stanno esplorando due vie d’uscita, entrambe discutibili. La prima: rifinanziare subito Transizione 5.0 per evadere le domande in coda. Tradotto: rimettere soldi nella stessa misura da cui li avevano appena ritirati. Paradossale, certo, ma almeno lineare. La seconda: attingere ai 4 miliardi stanziati per il 2026. Problema: dal prossimo anno Transizione 5.0 cambierà natura, non sarà più un credito d’imposta ma un’altra cosa. Molte imprese che hanno fatto domanda sulla base delle regole attuali potrebbero scoprire di non avere più i requisiti per la versione 2026.
Insomma, un pasticcio che si aggiunge ai pasticci. E che conferma un pattern ormai consolidato: annunci roboanti, esecuzione disastrosa, imprese lasciate in mezzo al guado. La bandiera di Transizione 5.0, piantata con orgoglio nella revisione del PNRR, sventola ormai su un campo di macerie.