Nella provincia di Caserta la mafia nera comanda più dei Casalesi. Ancora scarse le risorse per il contrasto di una criminalità bene organizzata dal modello tribale
L’ascia, che nel loro logo spezza una catena, icona di schiavitù, sembra esprimere una legittima rivendicazione di coloro che si ritengono vittime. Ma la sua distruttività, come si capisce dalla scia di disperazione e sangue che lascia dietro di sé, simboleggia invece la rivolta di coloro che si trasformano in aguzzini per compiere crimini contro l’umanità.
L’autonominata Black Axe (Ascia Nera) è una mafia tentacolare, che spazia dalla tratta degli esseri umani alla droga, dalla prostituzione, ai riti tribali, dall’estorsione, al contrabbando di organi, all’ingerenza sulle rotte dell’immigrazione con “adepti” in ogni parte del mondo. Dalla Libia, giovani nigeriane sono obbligate a imbarcarsi; una volta in Italia, vengono trasformate in prostitute e assegnate a un joint, una porzione di marciapiede, mentre in patria la loro famiglia è in ostaggio. A partire dagli anni Novanta, la Black Axe si è infiltrata, pancia a terra, anche nei gangli di tutta la società italiana, dove ora è in piena espansione. Ma c’è di più. La loro forza e pervasività si fonderebbe su una sorta di comunità spirituale che vede al comando un capo carismatico.
I Black Axe sono riusciti, anche in Italia, a collaborare con i sistemi criminali autoctoni, amplificando la portata della criminalità e rendendola, se possibile, più spietata e crudele. Black Axe, Eiye, Viking e Mefite sono le quattro grandi cosche africane, note anche come Cult. In Italia, la mafia nigeriana scorrazza indisturbata da nord a sud. Le sue origini risalgono agli anni ‘80, nei campus africani, dove gruppi di giovani istruiti, di etnia ibo e yoruba, ottennero il supporto politico dello Stato grazie a scambi di favori, in un periodo segnato dall’instabilità e dalla crisi petrolifera. I trasporti di droga in occidente hanno contribuito al successo e all’espansione di queste cosche in termini geografici.
Le mafie nigeriane hanno iniziato come supporto alle grandi famiglie mafiose, ma le dinamiche sono presto cambiate. Dopo il “tirocinio” mafioso, la cosca nigeriana ha piazzato i suoi uomini sulla scacchiera italiana a cominciare dal Nord del Paese. La relazione 2018 della Direzione investigativa antimafia recita: “Storicamente, la presenza di comunità nigeriane va fatta risalire, fin dagli anni ‘80, specialmente nel Nord Italia, in Piemonte, con Torino in testa, in Lombardia, in Veneto e Emilia Romagna”.
L’operatività di gruppi organizzati si è poi estesa, nei primi anni ‘90, anche al Centro-Sud, specialmente nel casertano. Questi gruppi mafiosi praticano riti d’iniziazione funzionali alla fidelizzazione, chiamati ju-ju, simili al voodoo e alla macumba, nel reclutare le vittime. I nuovi adepti vengono denudati, gettati a terra e presi a calci e pugni dai confratelli, sotto lo sguardo del santone. Tagli sul corpo e, a seguire, un calice di sangue e lacrime, offerto per suggellare l’affiliazione.
I centri di accoglienza cominciano a presentare una situazione sempre più pericolosa al loro interno e all’esterno. I vertici dei clan manovrano enormi quantità di denaro grazie a transazioni non rintracciabili, con il metodo dell’hawala. Il denaro non passa attraverso gli istituti di credito ma nei condotti di una rete fittissima di referenti in vari Paesi del mondo, che in sostanza fanno rimesse. I soldi ricavati alimentano le varie cellule sparse per l’Africa, che sono il primo filtro essenziale della cosca. I clan cultisti funzionano come un aggregatore sociale, non solo per chi già ne fa parte ma anche per chi parte dalla Nigeria e arriva sulle coste italiane.
Se questo può essere un indicatore, il numero di carcerati nigeriani a marzo 2019 è arrivato a 1.604 contro i 679 del 2007. Quanto è sfuggita di mano la situazione ai nostri governi e soprattutto quanto è attrezzato il nostro governo a contrastare una mafia così distante da un modello culturale occidentale?