Una madre che denunciò l’orrore, tradita dall’indifferenza delle istituzioni e uccisa dalla vendetta del suo carnefice.
Napoli – Sono da poco passate le otto, via Marina è già congestionata dal traffico del lunedì. Teresa Buonocore parcheggia l’auto, pronta a raggiungere lo studio legale dove lavora come segretaria. Non arriverà mai. Due uomini in moto si avvicinano e sparano quattro colpi a bruciapelo. Teresa muore sul colpo. Un’esecuzione in piena regola, pianificata con metodo camorristico, che scuote l’opinione pubblica e apre uno squarcio nel silenzio attorno a una vicenda di abusi e giustizia negata.
Teresa, 51 anni, nata a Portici, era conosciuta da tutti come una donna generosa, sempre con il sorriso, instancabile. Dopo due matrimoni finiti male, aveva cresciuto i suoi quattro figli quasi da sola, lavorando senza sosta tra lo studio legale e l’attività di guida turistica.
«Era una mamma che non si arrendeva mai, anche nei momenti più difficili», ricordano i vicini. Una donna normale, che diventa straordinaria quando la vita le mette davanti il peggiore dei mostri.
L’orrore nascosto dietro la porta accanto
L’incubo comincia quando una delle sue bambine stringe amicizia con una coetanea. Un legame innocente, che porta la piccola a frequentare spesso casa dell’amichetta. È lì che Teresa scopre l’inaudito: il padre della bambina, Enrico Perillo, abusa sistematicamente delle minori che varcano la sua soglia.

Il geometra di 54 anni, insospettabile, marito e padre, si rivela un predatore seriale. Per Teresa la scelta è immediata: denunciare. Non pensa ai rischi, né alle conseguenze. Pensa solo a proteggere sua figlia.
Il percorso giudiziario è lungo e doloroso. Teresa si costituisce parte civile, affronta le udienze con forza e dignità. In aula, rifiuta la proposta di Perillo: 120.000 euro in cambio del silenzio.
Il processo si chiude con una condanna esemplare: 16 anni di reclusione per il pedofilo. Una vittoria della giustizia che però scatena l’odio del condannato.
Da quel momento, la vita di Teresa e delle sue figlie diventa un inferno. Minacce, atti intimidatori, l’incendio della porta di casa, telefonate anonime. Lei non si piega. Continua a denunciare tutto, sperando in una protezione che non arriva mai.
Lo Stato non interviene. Nessuna misura di tutela, nessuna scorta. Una donna sola contro un uomo capace di muovere complici anche dietro le sbarre.
Il 20 settembre 2010 la condanna arriva per mano di due sicari: Alberto Amendola e Giuseppe Avolio. Sono loro a premere il grilletto, ma la mente resta Perillo, che dall’interno del carcere di Modena pianifica l’omicidio della mamma coraggio.

Le indagini successivamente scopriranno un arsenale da guerra nelle disponibilità del geometra: pistole, mitragliatrici, migliaia di munizioni. Una potenza di fuoco inquietante, che rende ancora più evidente la sproporzione tra l’arma del male e la solitudine di una madre.
Nel 2012 la sentenza definitiva: ergastolo per Perillo, pene pesanti per i sicari. Ma resta l’amarezza di una giustizia che è arrivata troppo tardi.
Dopo la tragedia, le figlie di Teresa vengono affidate alla sorella a Salerno. Crescono lontane da Napoli, ma portano dentro il ricordo della madre. Oggi sono donne adulte, impegnate contro la violenza di genere. La loro testimonianza tiene viva la memoria di Teresa, trasformando il dolore in impegno civile.
Nel 2017, a sette anni dall’agguato, la Repubblica italiana assegna a Teresa Buonocore la medaglia d’oro al merito civile alla memoria. Un gesto simbolico che però non cancella la domanda che da allora aleggia: perché nessuno è intervenuto per proteggerla?

La storia di Teresa non è solo cronaca nera. È una lente attraverso cui guardare le fragilità di un sistema che troppo spesso lascia sole le vittime. È un atto d’accusa contro l’omertà, contro l’indifferenza, contro lo Stato che arriva sempre dopo.
Teresa è stata uccisa perché ha scelto la verità. E la verità, a Napoli come altrove, resta ancora oggi la sfida più pericolosa.