Stevanin e quei permessi premio svaniti per la sua vocazione predatoria

Già nel 2017 chiese di poter uscire, ma la perizia disse che era socialmente pericoloso. Da quasi 30 anni sconta la pena in carcere.

Roma – Blazenka, Bijana, Claudia, Roswita. E due donne senza nome, di cui una trovata tagliata a pezzi in un sacco e un’altra mutilata nelle parti intime, di cui rimangono solo alcune fotografie. Giovani prostitute e tossicodipendenti, facili prede di quel bel ragazzo, a tutte apparso gentile, ricco ed elegante, che offriva denaro in cambio di sesso o fotografie. Nell’avvicinarle a volte mostrava anche un biglietto da visita di una fantomatica casa di produzione cinematografia, in modo da convincerle a salire sulla sua auto.  Solo un inganno. La destinazione era un casolare della tenuta di famiglia, isolato nelle campagne vicentine di Terrazzo, dove nessuno poteva accorgersi e sentire l’orrore di quanto accadeva. Quelle sei donne furono uccise, fatte a pezzi, sepolte o gettate nel fiume dopo atti di sesso estremo, con tecniche di bondage e sado masochismo. Per Gianfranco Stevanin erano spazzatura. Da usare e buttare. 

Solo Gabriele Musger, prostituta austriaca di 28 anni, riuscì a scappare dopo cinque interminabili ore di sevizie e paura, interrompendo la catena di morte di Stevanin, arrestato il 16 novembre del 1994. Mentre scontava la pena di tre anni per violenza e sequestro di persona, la madre di un’altra giovane donna, Claudia Pulejo, diede impulso alle indagini: sua figlia si frequentava con Gianfranco, si prostituiva per acquistare droga, ed era scomparsa il giorno dopo un appuntamento con lui.

Era certa che bisognasse cercare in quella casa. La trovarono a un anno di distanza, Claudia, seppellita nei campi del podere degli Stevanin, accuratamente avvolta in un cellophane. Forse l’unica vittima per la quale Stevanin mostrò rimorso. Prima di scavare la fossa nella terra brulla, il “mostro di Terrazzo” le aveva tagliato i capelli, conservati insieme a quelli di altre donne, e peli pubici. «Volevo farci un cuscino» dichiarò durante gli interrogatori.  

Gianfranco Stevanin

Nella villa e nei casolari degli Stevanin i carabinieri trovarono un ampio corredo da maniaco: corde, legacci, abbigliamento intimo, lamette da barba, due provette con tracce di sangue, videocassette e riviste oscene, falli artificiali, strumenti ginecologici, creme depilatorie, rasoi, unguenti, lavande vaginali, libri di medicina e anatomia, di immobilizzazione e bondage, e appunti scritti dallo stesso Stevanin che illustravano le tecniche perverse per raggiungere il piacere sessuale.

Fu anche sequestrato un imponente archivio di oltre settemila fotografie scattate fra il 1981 e il 1994, passando dall’erotico al pornografico, con protagoniste circa duecento donne. Anche autoscatti con lo stesso Stevanin, attore di punte sadiche al limite della sopportazione fisica. Una serie di negativi non sviluppati, che attirarono ancor più l’attenzione di investigatori e inquirenti, raffigurano un omicidio in sequenza: una donna di cui non si vede il viso, mani legate dietro la schiena, e con una gravissima lesione nelle parti intime. Foto che sembrano immortalarla da viva e da morta. Un’escalation di orrore.   

Stevanin e due delle diverse donne morte ammazzate

Non ha mai confessato, davvero, Stevanin. Parziali ammissioni tra l’onirico e il reale, “forse l’ho sognato“, “forse è andata così”, “non ricordo”, sostenendo che erano tutte morte accidentali. Come se non si rendesse conto (o non volesse raccontarlo) di avere commesso quelle atrocità. Intelligente, manipolatore, con amnesie ad hoc finalizzate a una strategia processuale. Non rievocava i momenti degli omicidi, solo il prima e il dopo. Dichiarò anche di aver vomitato quando recuperò nel fienile un cadavere orami in putrefazione, abbandonato in un angolo e poi seppellito. Una delle storie più raccapriccianti della cronaca italiana. Un serial killer da manuale, di quelli che si vedono in Tv, un soggetto psicopatico con aspetti sadici e di perversione sessuale. Cinque processi per stabilire la sua certa colpevolezza e la piena capacità di intendere e di volere. 

Da qualche anno Gianfranco Stevanin, dopo quasi trent’anni di detenzione, chiede di poter usufruire di permessi premio. Lo chiese già nel 2017 ma una valutazione interna degli specialisti della casa circondariale di Bollate, ove attualmente è detenuto, lo definì socialmente pericoloso. Con il nuovo legale sta percorrendo ancora una volta questa strada, sperando nella clemenza della magistratura e in una perizia favorevole all’uomo che l’avvocato definisce “detenuto modello”. Certamente, periti dell’accusa e della difesa, già all’epoca dei processi, al di là delle cause del comportamento, concordavano sulla forte probabilità che, una volta libero, Gianfranco Stevanin rimettesse in atto gli stessi comportamenti.

Stevanin dutante uno dei numerosi processi

“Le stesse situazioni che hanno portato il periziato a perdere il controllo delle proprie azioni (in riferimento agli omicidi) oppure ad indurlo a cercare situazioni ad alto rischio, magari ripetendo le esperienze del cosiddetto “sesso estremo“, potrebbero facilmente ripetersi ed egli probabilmente (se non certamente) potrebbe realizzare altri reati”.  Una struttura di personalità come quella di Stevanin, con forte vocazione di predatore dalla natura oscura, di colui che decide della vita e della morte di chi in quel momento ha fra le mani, non si cancella. Nemmeno dopo trent’anni di galera.  

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