Scuola pubblica, fede privata: lo Stato arretra, l’integralismo avanza

Il Paese si adatta senza fiatare mentre le comunità islamiche avanzano pretese incompatibili con le nostre leggi e valori. Integrazione o resa culturale?

Bologna – La recente decisione del Comune di Bologna di introdurre, a partire da settembre 2025, la dieta halal nelle mense scolastiche ha riacceso un dibattito che da anni divide l’opinione pubblica italiana. La nuova opzione, che si affianca alle scelte vegane e vegetariane, prevede l’eliminazione di carni non conformi ai precetti islamici e l’inserimento di pollo halal e pesce nei menù.

Mense halal

Le reazioni politiche sono state immediate. La Lega ha definito la misura un “atto gravissimo di sottomissione culturale”, mentre Fratelli d’Italia ha denunciato il rischio di una “discriminazione al contrario”, in cui si privilegiano esigenze religiose specifiche a scapito della neutralità delle istituzioni. L’europarlamentare Anna Cisint ha parlato senza mezzi termini di “pratica tribale”, sottolineando come dietro la macellazione rituale si celi un sistema illiberale e patriarcale.

La macellazione halal: tra deroghe e tensioni normative

In Italia, come in altri Paesi europei, è stata concessa una deroga alla normativa comunitaria che impone lo stordimento degli animali prima della macellazione. Per ragioni religiose, in macelli autorizzati e sotto il controllo delle autorità sanitarie, è possibile praticare la macellazione halal (e kosher), in cui l’animale viene sgozzato mentre è ancora cosciente.

Questa prassi, richiesta dalle comunità musulmane ed ebraiche, solleva forti perplessità etiche e culturali.

Halal: un mercato in espansione

Il fenomeno halal non riguarda solo la carne. In Italia sono presenti oltre 200 macelli autorizzati e il settore è diventato un vero e proprio business: esistono certificazioni halal per cosmetici, farmaci, abbigliamento, turismo, finanza e persino servizi bancari. Il marchio Halal è registrato presso il Ministero dello Sviluppo Economico, a conferma di come la dimensione economica abbia preso il sopravvento su quella culturale.

Marchio Halal

Tuttavia, dietro questa espansione si nasconde il rischio di una trasformazione silenziosa: ogni prodotto, servizio o spazio pubblico può essere piegato ai criteri religiosi di una singola comunità, trasformando la società in un mosaico frammentato in cui ognuno vive secondo regole proprie, spesso in contrasto con quelle dello Stato.

Chi si integra con chi?

È lecito chiedersi: perché dovrebbero essere gli italiani ad adattarsi alle esigenze religiose delle comunità immigrate e non il contrario? L’integrazione non può essere un processo unilaterale, in cui il Paese ospitante rinuncia gradualmente alle proprie regole, alla propria cultura e ai propri principi per compiacere richieste che spesso sono identitarie più che religiose.

Accettare ogni pretesa nel nome del multiculturalismo significa abdicare al proprio ruolo di guida culturale e normativa, lasciando che siano altri a dettare le condizioni della convivenza. È una forma di debolezza culturale e istituzionale che rischia di creare precedenti dannosi e irreversibili.

La questione diventa ancora più critica quando coinvolge le scuole pubbliche. Trasformare la mensa scolastica in un luogo dove si istituzionalizzano pratiche religiose non è inclusione ma un modo per legittimare la frammentazione culturale. La scuola dovrebbe essere spazio laico e neutrale, dove si educa alla cittadinanza, non alla separazione religiosa.

Carne Halal

Le richieste halal, come quelle relative ad altre pratiche religiose rigide, mettono a nudo tutte le contraddizioni del modello multiculturale acritico: quello che accoglie tutto, senza mai chiedere nulla in cambio. Ma l’integrazione autentica richiede reciprocità e non può basarsi su un continuo arretramento dei valori comuni per fare spazio a visioni del mondo che, spesso, non condividono né la laicità, né l’uguaglianza, né il rispetto per i diritti fondamentali.

Se l’Italia vuole rimanere una società coesa, libera e moderna, deve iniziare a dire con chiarezza che la cultura ospitante ha il diritto – e il dovere – di porre dei limiti. Non per escludere ma per non rinunciare a sé stessa.

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