Una storia di coraggio, amore e tragedia nella Calabria degli anni ’70.
Firenze – Ci sono storie che il tempo vorrebbe cancellare, ma che la memoria collettiva ha il dovere di custodire. La vicenda di Rossella Casini appartiene a quel fragile patrimonio di verità che l’Italia non può permettersi di dimenticare: un monito contro la violenza mafiosa e il prezzo altissimo che paga chi sceglie la giustizia.
Firenze, fine anni Settanta. In una vecchia palazzina di Borgo La Croce vive una ragazza di poco più di vent’anni. Rossella studia Psicologia, è figlia unica di una famiglia operaia: un padre dipendente Fiat, una madre casalinga. La sua vita scorre serena tra le lezioni universitarie, le amicizie e le strade del centro storico.
Nello stesso stabile abitano alcuni studenti fuorisede. Tra loro c’è Francesco Frisina, calabrese di Palmi, iscritto a Economia a Siena. È gentile, cortese. Tra Rossella e Francesco nasce un amore limpido, tanto forte da spingere la ragazza a presentarlo ai genitori e a seguirlo in Calabria, nell’estate del 1979, per conoscere la sua famiglia.
Quel viaggio, che dovrebbe sancire un nuovo inizio, si trasforma invece nel peggiore degli incubi. Il 4 luglio 1979, mentre Rossella e sua madre si trovano a Palmi, il padre di Francesco viene assassinato in un agguato: è l’inizio di una sanguinosa faida tra le cosche Gallico–Frisina e Condello–Parrello, destinata a durare oltre un decennio e a mietere decine di vittime.
Per Rossella è uno shock. Si ritrova immersa in un universo che non conosce: violenza, vendette, un codice d’onore feroce. Eppure rimane accanto al fidanzato, rimandando a casa la madre e scegliendo di restare in Calabria per sostenerlo.
Cinque mesi dopo, il 9 dicembre, mentre sta finalmente tornando a Firenze, arriva un’altra notizia terribile: Francesco è stato ferito alla testa durante uno scontro a fuoco. Rossella corre da lui, lo assiste e lo fa trasferire in una clinica fiorentina. Lontano dalla Calabria, tenta l’impossibile: strapparlo alla logica del male.
È lei a convincerlo ad aprirsi. Francesco comincia a parlare con un poliziotto – presentato inizialmente come un “cugino” – e Rossella stessa testimonia davanti alla magistratura nel febbraio 1980. Racconta ciò che ha visto, ciò che sa. Parla con la spontaneità di chi crede nella giustizia e non conosce altra strada.
Ma per la famiglia Frisina quella collaborazione è un affronto, un tradimento. Rossella diventa un ostacolo, una minaccia per l’intero clan. Bastano pochi mesi in carcere perché Francesco, piegato dalle pressioni dei suoi, ritratti ogni parola.
Lei però non rinuncia. Tra il 1980 e il 1981 fa la spola tra Firenze e la Calabria, cerca di mediare, di riportare un po’ di pace, persino di ridimensionare le dichiarazioni rilasciate agli inquirenti. Tenta in tutti i modi di salvare quell’amore e quella vita.
Intanto suo padre, Loredano, inizia a temere il peggio. Un giorno trova una lettera anonima sull’auto della figlia; nelle lunghe telefonate con la famiglia, Rossella lascia intendere che la situazione si sta complicando, che i rapporti con i Frisina sono ormai tesi. Si è trasferita temporaneamente alla tonnara di Palmi, ospite di amici, in attesa di sistemare “alcune questioni” prima di tornare a Firenze.
Il 21 febbraio 1981 si presenta al Tribunale di Palmi e firma un memoriale in cui ritratta le sue precedenti dichiarazioni. Forse crede che quel gesto possa ristabilire un equilibrio, guarire la frattura. Purtroppo non è così.
Il giorno dopo, il 22 febbraio, chiama suo padre. Gli dice che sta preparando le valigie. Ha venticinque anni e tutta la vita davanti. Non arriverà mai a casa.
Di lei non c’è più traccia. I genitori la cercano disperatamente, ma si scontrano con un muro di silenzi. La madre muore pochi anni dopo, consumata dal dolore; il padre continua a inseguire la verità fino al 1994, quando legge su un giornale le rivelazioni di un collaboratore di giustizia: Rossella è stata rapita, torturata, violentata, uccisa e gettata in mare presso la tonnara di Palmi. Nessuno glielo ha mai detto prima. Deve scoprirlo così, da un trafiletto in terza pagina.
Nel 1997 si apre il processo basato sulle dichiarazioni del pentito Vincenzo Lo Vecchio, che racconta l’orrore dell’esecuzione e il depistaggio ideato per attribuirne la responsabilità alla cosca rivale. Afferma persino che Francesco, allora ricoverato a Messina, aveva dato il suo consenso all’esecuzione della fidanzata.
L’iter giudiziario dura nove anni. Nel 2006 tutti gli imputati vengono assolti per insufficienza di prove. Il corpo di Rossella non viene mai ritrovato. Non esiste una tomba su cui piangerla.
Per anni, la sua storia rischia di scomparire insieme ai suoi genitori. Non esistono fotografie pubbliche, finché nel 2013 – grazie all’impegno di Libera e di alcune giornaliste – viene ritrovata una piccola fototessera del suo libretto universitario: capelli lunghi, occhi chiari, uno sguardo che sembra trattenere un peso inesprimibile.
Da allora, lentamente, la memoria di Rossella riaffiora. Libri, teatro, documentari raccontano la sua vicenda. Alcuni presidi di Libera portano il suo nome. A Limbadi, in un bene confiscato alla ’ndrangheta, nasce l’Università della Ricerca, della Memoria e dell’Impegno intitolata a lei.

Il 2 giugno 2019, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella le conferisce la Medaglia d’oro al valor civile, restituendo alla sua storia un riconoscimento troppo a lungo negato.
Rossella incarna la forza di chi sceglie la libertà contro l’oppressione, la verità contro il silenzio, l’amore autentico contro la violenza. È una “straniera”, sì, ma straniera alla logica mafiosa, ai suoi codici, alla sua ferocia.
Crede nella giustizia, nel cambiamento, nella possibilità di un futuro diverso. E per questo viene uccisa.
La sua storia racconta di una mafia che non uccide solo con le armi: annienta speranze, devasta affetti, divora vite. Il suo volto, riemerso da una piccola fototessera, sembra chiederci ancora oggi: “E voi, cosa scegliereste?“