Una delibera regionale apre le porte delle strutture sanitarie alle polizze private. Il sistema cambia pelle mentre cresce il dibattito su equità e universalità.
Settembre 2025. Mentre l’estate volge al termine, negli uffici della Regione Lombardia si consuma una decisione destinata a fare rumore ben oltre i confini regionali. La Giunta ha approvato un provvedimento – la super intramoenia – che, nelle intenzioni dell’assessore Guido Bertolaso, dovrebbe modernizzare l’offerta sanitaria. Nella pratica, spalanca le porte degli ospedali pubblici a un modello fino a ieri considerato marginale: prestazioni mediche erogate con infrastrutture dello Stato ma destinate a chi può permettersi un’assicurazione o è disposto a pagare di tasca propria.
Il meccanismo è più sofisticato di quanto appaia. Non si tratta semplicemente di consentire ai medici di visitare pazienti privati negli ambulatori ospedalieri, pratica già prevista dalla normativa nazionale. Qui si va oltre: intere strutture pubbliche possono ora firmare accordi commerciali con compagnie assicurative, riservando quote di attività a chi accede attraverso polizze sanitarie. Sale operatorie pagate con le tasse, macchinari diagnostici acquistati con fondi pubblici, personale assunto dal Servizio Sanitario Nazionale: tutto diventa disponibile per un mercato parallelo, regolato da tariffe concordate e logiche di convenienza economica.

Per comprendere la portata del cambiamento occorre fare un passo indietro. Il sistema sanitario italiano si è costruito su un’idea precisa: la salute come diritto universale, accessibile a tutti indipendentemente dalle condizioni economiche. Un principio costituzionale tradotto in un’architettura complessa di ospedali, ambulatori, personale specializzato. Certo, accanto al pubblico è sempre esistito un settore privato. Ma il confine era relativamente chiaro: da una parte la sanità finanziata dalla fiscalità generale, dall’altra cliniche e professionisti operanti sul mercato. La novità lombarda mescola le carte, creando una zona grigia dove pubblico e privato si intrecciano in modi inediti.
Le reazioni non si sono fatte attendere. Organizzazioni sindacali, associazioni di categoria, movimenti civici hanno alzato la voce con toni allarmati e allarmanti. Il cuore dell’obiezione sta in una domanda apparentemente semplice: se un ospedale pubblico riserva una parte della sua capacità operativa a prestazioni a pagamento, cosa succede a chi non può permettersele? La risposta più immediata riguarda i tempi di attesa. Ogni risonanza magnetica effettuata per un paziente assicurato è una risonanza sottratta alla lista d’attesa ordinaria. Ogni intervento chirurgico prenotato attraverso una polizza privata occupa uno slot che avrebbe potuto andare a chi aspetta da mesi nel canale pubblico.
Ma il discorso va più in profondità. Le compagnie assicurative non sono enti benefici: operano secondo criteri di redditività e gestione del rischio. Tendono a coprire prestazioni standardizzate, a basso rischio di complicazioni, su pazienti giovani o comunque non gravati da patologie croniche. Gli anziani, i malati complessi, chi ha bisogni sanitari articolati finisce spesso escluso dalle coperture o accettato a tariffe proibitive. Il risultato pratico è una sorta di selezione naturale: il privato assicurativo si prende i casi semplici e redditizi, lasciando al pubblico quelli difficili e costosi. Un’asimmetria che non può non influenzare l’equilibrio complessivo del sistema.
C’è poi un aspetto più sottile ma non meno rilevante: gli incentivi economici. Se un ospedale può guadagnare di più dalle prestazioni a pagamento, quali priorità finirà per darsi? Se un medico viene remunerato meglio quando opera nel canale privato, dove concentrerà le sue energie? Non si tratta necessariamente di malafede o avidità, ma di meccanismi sistemici che orientano comportamenti e scelte organizzative. Un ospedale che diventa in parte azienda commerciale inizia inevitabilmente a ragionare con logiche aziendali: margini, efficienza, profittabilità. E quando questo accade, i pazienti smettono di essere cittadini titolari di un diritto per diventare clienti da classificare in base alla loro capacità di generare entrate.
La difesa del provvedimento poggia su argomenti pragmatici. Le risorse pubbliche sono limitate, i bisogni sanitari crescono, le liste d’attesa rappresentano un problema reale e urgente. Permettere un utilizzo più intensivo delle strutture, anche attraverso canali a pagamento, potrebbe generare entrate reinvestibili nel sistema. La delibera prevede infatti che una percentuale dei ricavi – il famoso 5% destinato al Fondo Balduzzi – venga utilizzata proprio per migliorare l’offerta pubblica e ridurre le attese. Un circolo virtuoso, almeno in teoria: il privato finanzia il pubblico, tutti ci guadagnano.
La critica smonta questa narrazione pezzo per pezzo. Dopo decenni di tagli, sottofinanziamenti, carenze di personale, una percentuale minima dei proventi generati dall’attività privata appare più un contentino che una soluzione. E soprattutto, l’argomento delle risorse limitate può giustificare riforme strutturali, investimenti mirati, riorganizzazioni coraggiose. Non necessariamente la trasformazione degli ospedali pubblici in luoghi dove vige la logica del “chi paga passa avanti”. Marco Massarenti, esponente di Unimpresa, sintetizza il punto con un’immagine efficace: il cittadino finisce per pagare due volte, prima con le tasse poi con la polizza, per ottenere ciò che gli spetterebbe come diritto fondamentale.

Il dibattito ha assunto rapidamente dimensioni nazionali. Perché se il modello lombardo dovesse consolidarsi e diffondersi in altre regioni, il sistema sanitario italiano cambierebbe natura. Non più un servizio universale garantito dallo Stato, ma un’infrastruttura ibrida dove l’accesso effettivo dipende dalla capacità economica individuale o dalla fortuna di avere un buon contratto assicurativo. Una trasformazione che alcuni considerano inevitabile adattamento alla realtà contemporanea, altri una resa rispetto ai principi fondativi della Repubblica.
Sindacati e associazioni hanno annunciato iniziative di mobilitazione. Si parla di ricorsi, di richieste formali di chiarimenti, di pressioni sul Governo centrale perché intervenga per tutelare l’universalità del diritto alla salute. Ma al di là delle battaglie legali e politiche, resta aperta una questione più profonda: che tipo di società vogliamo essere? Una comunità che garantisce a tutti, indipendentemente dal reddito, l’accesso alle cure necessarie? O un mercato dove la salute diventa un bene come un altro, distribuito secondo le regole della domanda e dell’offerta?
La delibera lombarda non risponde a queste domande, le pone. E lo fa in un momento storico particolare, mentre la sanità pubblica mostra crepe evidenti sotto il peso dell’invecchiamento demografico, delle tecnologie costose, delle aspettative crescenti dei cittadini. Trovare soluzioni sostenibili è indispensabile. Ma trasformare gli ospedali in luoghi dove vince chi ha la polizza giusta difficilmente può essere considerata la risposta. O almeno, non l’unica possibile. Il futuro della sanità italiana si gioca anche qui, tra le pieghe di una delibera regionale che rischia di diventare un precedente. E i precedenti, nella storia delle istituzioni, hanno la fastidiosa abitudine di trasformarsi in norme.