La notte tra l’1 e il 2 novembre 1975 si consumò il brutale assassinio di un uomo mai davvero accettato dalla società del suo tempo.
Ostia – Una rottura traumatica del cuore. È questa la causa del decesso che diedero i consulenti dell’epoca sulla morte di Pier Paolo Pasolini, ucciso brutalmente all’Idroscalo di Ostia nella notte tra l’1 e il 2 novembre. La frattura dello sterno e delle costole provocata dal passaggio sul corpo dell’autovettura Alfa Romeo GT targata ‘Roma K69996’ di sua proprietà e che in quella circostanza era guidata – come emerse dalle indagini – da Giuseppe Pelosi, detto ‘la rana’. Un ragazzo di vita, come lo definiva Pasolini, nonché unico imputato e condannato per il suo brutale assassinio.
Era il 1975. Sono trascorsi ormai 50 anni da quella notte, ma sono ancora tanti i dubbi e le congetture sulle dinamiche che portarono alla morte del grande poeta, regista e scrittore che Pasolini fu. Morto con il cuore spezzato, le sue ultime parole furono una richiesta di aiuto e furono rivolte alla madre Susanna, con la quale aveva un rapporto molto intimo, viscerale.
Una morte spietata e una vita difficile. Nato a Bologna il 5 marzo del 1922, Pasolini visse la guerra e la morte del fratello partigiano. Le difficoltà economiche, il difficile rapporto con il padre, gli spostamenti dall’Emilia al Friuli e poi a Roma. Comunista iscritto al Pci poi rifiutato dal suo partito. Poeta omosessuale mai accettato e criticato per le sue idee, per quelle parole spregiudicate e pungenti che gli costarono la vita. Quei “Io so” pubblicati sul Corriere della Sera e quelle lucciole di cui non c’è più luce. Pasolini scriveva e girava film che denunciavano i poteri forti, l’assetto politico e la società del suo tempo. Sullo sfondo gli anni di Piombo, le stragi e le morti di vittime innocenti.
La sua sessualità trattata come perversione e strumentalizzata dopo la sua morte. Utilizzata come alibi da Pino Pelosi, il 17enne che confessò – poi ritrattando la sua versione – di averlo ucciso solo per legittima difesa. Ammazzato perché dopo un rapporto orale avrebbe cercato di violentare quel giovane salito a bordo della sua Alfa Romeo alla Stazione Termini. Ma solo dopo aver consumato un buon pasto al Biondo Tevere.
Che Pelosi non fosse solo quella notte l’aveva intuito il giudice del tribunale minorile Alfredo Carlo Moro – fratello di Aldo Moro, Presidente della Democrazia Cristiana. Nella prima sentenza di condanna di Pino Pelosi scrisse: “Il collegio ritiene che dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte all’Idroscalo il Pelosi non fosse solo”.
Le sue parole però non bastarono ad invertire la storia e a non processare il 17enne per la morte del regista. Che Pasolini fosse all’Idroscalo di Ostia per un riscatto, per riprendersi le pellicole del suo ultimo film ‘Salo’ o le 120 giornate di Sodoma’ rubategli a fine agosto sarà uno dei possibili moventi presentati – oltre 40 anni dopo – in una relazione della Commissione parlamentare Antimafia.
I primi 50 anni della morte del regista di Mamma Roma non hanno portato a nessuna verità, né storica né giudiziaria. Una verità taciuta, omessa e raggirata. Instancabile la ricerca di giustizia dell’avvocato Stefano Maccioni, legale della famiglia Pasolini, che cerca di difenderla da omertà e menzogne.
Forse quell’intellettuale scomodo aveva ragione quando disse: “Amo ferocemente, disperatamente la vita. E credo che questa ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine”.