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Per risolvere la crisi idrica…desalinizziamo i mari!

La scarsa disponibilità di acqua potabile, molto più accentuata nelle regioni più povere del mondo, è un problema gravissimo. Per risolverlo sembra che la direzione intrapresa sia quella della desalinizzazione dei mari. Con tutti i problemi che comporta.

Roma – La crisi climatica che stiamo subendo da anni, si è trascinata con sé la siccità e la conseguente mancanza d’acqua che tante morti e sofferenze sta provocando soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. Non è che l’occidente, da questo punto di vista, viva un periodo di “vacche grasse”, tutt’altro. In molte zone del nostro Meridione, soprattutto nei mesi estivi, l’acqua viene razionata e la si può utilizzare solo in alcune fasce orarie ed è diventata consuetudine, ormai vedere le autobotti che girano per i vari Paesi. La soluzione possibile è stata trovata nei nostri mari.

Qui il problema è atavico, nel senso che esiste da prima che la crisi ambientale, climatica e la siccità si inasprissero. Qualche settimana fa hanno fatto molto discutere le dichiarazioni del presidente della Regione Veneto Luca Zaia: “Abbiamo una risorsa, il mare, che non dobbiamo più guardare distrattamente. A Dubai anche giardini e palme sono sostenute dalla desalinizzazione”. “Desalinizzare” è diventata la formula magica che risolverà il problema della carenza d’acqua, dunque. Sembrerebbe proprio di sì, a sentire il sindaco di Genova Marco Bucci che trionfante ha esclamato: “Lavoriamo alla costruzione di un impianto di desalinizzazione in grado di portare 100 milioni metri cubi l’anno nel Nord Italia, attraverso oleodotti esistenti”.

Il processo di desalinizzazione.

Che si voglia andare in questa direzione è confermato dall’Acquedotto Pugliese (l’infrastruttura pubblica per l’approvvigionamento idrico-potabile della Regione Puglia e di alcuni comuni della Campania) che ha indetto la gara per il più grande impianto di desalinizzazione d’Italia, per un importo pari a 100 milioni di euro. L’Italia come Dubai, dunque, visto che qui questi impianti sono molto in uso? Beh, qualche correlazione col Golfo Arabo c’è, eccome! Genova è la sede di Fisia, azienda all’avanguardia nel settore che ha costruito diversi impianti nell’Emirato Arabo. L’azienda, nel frattempo assorbita dal gruppo Webuild, sotto la supervisione del sindaco-commissario, ha ricostruito il ponte di Genova. Con quest’opera si è dato inizio, tra squilli, trombe e fanfare, al tanto esaltato “modello Genova”, senza indire gare d’appalto ma con chiamata diretta.

È da circa un anno che si pensa di costruire impianti di desalinizzazione coi fondi del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) attraverso il progetto “Water is life” (l’acqua è vita). I lobbisti del settore stanno cercando di rendere la situazione a loro favorevole facendo pressione sui ministeri coinvolti. Ma già la cosiddetta “Legge Salvamare”, approvata nel giugno dell’anno scorso, aveva ribadito che i dissalatori avrebbero dovuto rappresentare l’ultima chance e non una soluzione strutturale. Inoltre, la carenza idrica avrebbe dovuto essere conclamata, così come certa la mancanza di alternative e aver eseguito tutti gli interventi tecnici per diminuire le perdite di acqua. Ci sono due aspetti che, come minimo, rendono infruttuosi per le tasche dei cittadini la costruzione di simili impianti. Consumano, infatti, molta energia e generano molte scorie, residui di sale, metalli, microplastiche che, riversati in mare, producono danni all’ecosistema.

The Pipe, un dissalatore fotovoltaico.

Secondo Legambiente Liguria: “Da un litro di acqua dissalata se ne ricava uno e mezzo di rifiuti. Altro che dissalatori, c’è bisogno di riparazioni delle condutture e di recuperare l’acqua dei depuratori”. Per costruire impianti di dissalazione sono necessari molti anni ed i rischio principale è di offrire ai privati un settore strategico come l’acqua potabile. L’Associazione Nazionale Bonifiche Irrigazioni (ANBI) ritiene che:

Salvo che nelle isole o in aree in cui non esistono alternative, i dissalatori possono essere “una soluzione per emergenze localizzate, non certo risolutivi. Anche perché gli alti costi energetici richiesti, che il Golfo Arabo non ha, metterebbero fuori mercato l’agroalimentare italiano. Eppure, con 270 miliardi di metri cubi d’acqua “buttati” in Italia ogni anno, guardiamo a Dubai”.                

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