Pamela Genini e il codice rosso mai attivato

Un anno prima della tragedia, il questionario ospedaliero aveva evidenziato tutti gli indicatori di rischio estremo, ma nessuno intervenne.

Milano – Nel settembre del 2024, Pamela Genini varcò la soglia dell’ospedale di Seriate con lesioni evidenti: una falange spezzata e numerose abrasioni sul corpo. Raccontò ai sanitari di essere stata malmenata dal fidanzato Gianluca Soncin, lo stesso che dodici mesi più tardi l’avrebbe trucidata nel capoluogo lombardo infliggendole oltre trenta colpi di lama, tre dei quali fatali penetrando il muscolo cardiaco.

In quell’occasione, l’ex modella ventinoveenne venne sottoposta al formulario standard di valutazione denominato “Brief Risk Assessment”, uno strumento predisposto dalle autorità sanitarie per identificare situazioni di maltrattamento grave. Le sue dichiarazioni delinearono uno scenario allarmante. Alla richiesta cruciale se temesse che lui potesse arrivare ad assassinarla, la risposta della giovane fu inequivocabile: “Sì”.

Anche agli altri quesiti del protocollo, Pamela fornì conferme preoccupanti in tre casi su quattro rimanenti: le aggressioni si stavano intensificando progressivamente, l’uomo mostrava una possessività ossessiva e aveva già fatto ricorso o accennato all’uso di strumenti offensivi. L’unica negativa concerneva un eventuale stato interessante. Le normative governative per il settore sanitario prescrivono che almeno tre indicazioni positive su cinque debbano far scattare automaticamente le contromisure d’emergenza, compreso l’interessamento immediato della Procura. Tuttavia, nel caso della Genini questo automatismo fallì completamente.

L’arrivo al punto di primo intervento venne registrato a metà mattina del 4 settembre. La classificazione iniziale fu di priorità alta, con esplicito riferimento a episodi di brutalità domestica. Dopo l’anamnesi, la donna descrisse l’ultima aggressione verificatasi nella serata precedente presso la residenza di lui a Cervia, in Romagna: colpi alla testa, trascinamenti per la chioma, scagliamento di suppellettili. Precisò che simili episodi si erano ripetuti con frequenza crescente nei mesi precedenti. Fece anche cenno a un abuso sessuale pregresso. Nel primo pomeriggio compilò il modulo di autovalutazione del rischio e scattò l’informativa all’Arma dei carabinieri. Un medico specialista stabilì poi una convalescenza di tre settimane. Tuttavia, dopo il confronto con i rappresentanti delle forze dell’ordine, comparve nella cartella clinica una dicitura che sconfessava l’urgenza di attivare le tutele speciali.

L’incartamento passò quindi attraverso un intreccio di competenze geografiche che ne dispersero l’efficacia. I militari della provincia bergamasca inoltrarono la segnalazione ai corrispettivi della provincia ravennate, territorialmente responsabili del luogo dell’aggressione. Questi richiesero che venisse formalizzata un’accusa scritta dalla persona offesa, ma Pamela declinò.

L’accaduto venne protocollato come “ipotetica vessazione di genere” nelle banche dati dell’Arma, ma non entrò mai nel circuito informatico “Scudo”, concepito proprio per tracciare situazioni critiche indipendentemente dalla volontà di sporgere querela.

Nessun incarto arrivò mai sulla scrivania dei magistrati inquirenti, né bergamaschi né romagnoli, e nessuna autorità di pubblica sicurezza venne sollecitata ad adottare provvedimenti preventivi. Nonostante i chiari campanelli d’allarme emersi dal test e la presenza fisica dei carabinieri nella struttura ospedaliera, l’intera catena di protezione prevista per legge rimase paralizzata.