È la prospettiva per chi entra ora nel mercato del lavoro, l’età più alta dopo la Danimarca. Il Rapporto ‘Pensions at a glance’.
Roma – In pensione a 71 anni? Praticamente fine… pena mai! Dopo una vita di duro lavoro, ogni cittadino è in attesa dell’agognata pensione. Con le casse dello Stato che sono al verde, molti temono, oltre che lavorare più anni, di vedersi ridotto l’assegno pensionistico. Tra le varie opzioni, attualmente in Italia quelle principali sono due: la prima, la pensione di vecchiaia al raggiungimento di 67 anni d’età, con un’anzianità contributiva di almeno 20 anni; la seconda, quella contributiva coi contributi versati. Quelli minimi richiesti sono di: 42 anni e 10 mesi di per gli uomini e 41 anni e 10 mesi di contributi per le donne, a prescindere dall’età anagrafica.
Dunque, a differenza della pensione di vecchiaia esiste in questo caso una differenza nei requisiti tra i due sessi. Per chi si trova a metà del guado e per chi inizia il proprio percorso lavorativo le prospettiva non sono per nulla incoraggianti. Chi varca la soglia del mondo del lavoro in questo momento storico, i giovani, andrà in pensione a 71 anni. Con il progresso della medicina in costante crescita, è un’età quasi da… ragazzino! Il problema non è tanto l’età, anche se 71 anni sono francamente troppi, ma il modo con cui si raggiunge il traguardo. Rappresenta una bassa percentuale coloro che svolgono il lavoro che amano e attraverso il quale possono manifestare la propria creatività, fantasia e passione.
La maggioranza è costretta a sbarcare il lunario con lavori non tanto desiderati, ma esercitati perché bisogna pur campare. Ci sono molti studi di psicologia del lavoro, che hanno evidenziato come lo stress lavorativo, il burnout, la competizione provocano danni alla salute psicofisica dei lavoratori. Sono tanti i casi di persone che soffrono di ansia e depressione per questi motivi, in quanto si sentono stremati, esausti e non riescono più a rispondere agli input dell’organizzazione del lavoro. Comunque, “così è se vi pare”, tanto per citare l’opera teatrale di Luigi Pirandello, nel 1934 premio Nobel della letteratura. Sono proprio 71: non sono chiacchiere da bar, ma quanto risulta dal rapporto “Pensions at a glance” a cura dell’OCSE, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. E’ una struttura internazionale di studi economici per i paesi membri, aventi in comune un sistema di governo di tipo democratico ed un’economia di mercato.
E’ l’età più alta in Europa dopo la Danimarca. Se si trattasse di Olimpiadi, un secondo posto equivarrebbe ad una medaglia d’argento che passerà agli annali (sic…). Questo accade perché l’Italia vincola l’età pensionabile con l’aspettativa di vita. Questa dipendenza non serve a migliorare le finanze della spesa pensionistica, ma a dissuadere chi vorrebbe andare in pensione prima del tempo previsto, con assegni bassi e per incentivare l’occupazione. Secondo gli esperti dell’OCSE, l’Italia, al momento, ha un tasso di occupazione nella fascia d’età 60-64 anni tra i più bassi d’Europa, dopo Francia e Grecia. Questo dato è spiegabile dai benefici elevati collegati ad un’età più bassa rispetto alle altre nazioni, che producono la seconda spesa più alta per la pensione pubblica tra i paesi OCSE.
Si conosce a menadito, ormai, il refrain dell’allungamento della vita e della denatalità con i relativi effetti sulla struttura socio-economica, con maggiori uscite e minori entrate. Ma il rimedio non è aumentare l’età pensionabile, checché ne dicano autorevoli economisti. Si dovrebbe pensare ad un nuovo modello di welfare state e una più efficace redistribuzione della ricchezza prodotta, cominciando a recuperare i tributi ed i contributi evasi, che in Italia hanno raggiunto cifre da capogiro. Sarà qualunquismo o populismo, come si usa dire oggi, ma è la dura verità delle cifre!