La tragedia di Napoli e le responsabilità di un sistema che non sa (e non vuole) proteggere chi lavora.
Napoli – Il crollo del cestello in via Domenico Fontana a Napoli, che ha strappato alla vita tre operai – Vincenzo Del Grosso, Ciro Pierro e Luigi Romano – è l’ennesimo tragico capitolo di una storia italiana che si ripete con drammatica regolarità. Ma dietro questa cronaca di sangue e dolore si nasconde una questione profondamente politica che attraversa governi di ogni colore e che mette a nudo le contraddizioni di un sistema che fatica a tutelare chi lavora.
Le promesse della ministra: un copione già visto
Le parole della ministra del Lavoro Marina Calderone, pronunciate “con dolore” dopo l’ennesima strage, suonano tristemente familiari. “Nuove misure sulla sicurezza in autunno”, ha annunciato, promettendo “interventi che migliorino la qualità della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro”. È un copione che abbiamo sentito recitare da decine di ministri, di governo e di opposizione, negli ultimi decenni. Eppure, i numeri continuano a essere spietati: secondo i dati INAIL, nel 2023 si sono verificati oltre 1.000 incidenti mortali sul lavoro in Italia.

La domanda politicamente scomoda è: perché, nonostante le promesse cicliche e le task force periodiche, continuiamo ad assistere a queste tragedie? La risposta chiama in causa responsabilità trasversali che vanno oltre gli schieramenti politici tradizionali.
Il nodo dei controlli: risorse e volontà politica
Il caso napoletano illumina una questione centrale: quella dei controlli. Gli inquirenti stanno verificando se il cestello fosse adeguato al carico e se la struttura fosse stata montata correttamente. Ma chi doveva controllare prima che tre uomini perdessero la vita? Il problema dei controlli è prima di tutto una questione di risorse pubbliche e di scelte politiche.
Gli ispettorati del lavoro sono cronicamente sottodimensionati. Con poco più di 2.000 ispettori per tutto il territorio nazionale, l’Italia ha uno dei rapporti più bassi d’Europa tra controllori e popolazione attiva. È una scelta politica precisa: ogni governo, di fronte ai vincoli di bilancio, ha preferito tagliare sui controlli piuttosto che su altre voci di spesa. Il risultato è che molte aziende sanno di poter operare nell’ombra, con buone probabilità di non essere mai ispezionate.
L’appalto al ribasso: il sistema che uccide
Dietro la tragedia di Napoli si intravede il sistema degli appalti al ribasso che caratterizza gran parte dell’economia italiana. La ditta individuale di Vincenzo Pietroliongo, come migliaia di altre micro-imprese del settore edile, opera in un mercato dove vince chi costa meno. E per costare meno, spesso si risparmia proprio sulla sicurezza: attrezzature più vecchie, meno formazione, meno tempo per seguire tutti i protocolli.
Questo sistema è il prodotto di scelte politiche precise. La legislazione sugli appalti pubblici, pur prevedendo criteri di qualità, nella pratica spinge ancora verso il massimo ribasso. Le amministrazioni locali, strangolate dai vincoli di bilancio, guardano soprattutto al prezzo. È un circolo vizioso che nessun governo, finora, ha avuto il coraggio di spezzare davvero.
La retorica della responsabilità individuale
Un altro elemento politicamente rilevante è la tendenza a scaricare la responsabilità sui singoli: l’operaio che non ha indossato il casco, l’imprenditore “cattivo” che non rispetta le regole. È una narrazione comoda che deresponsabilizza la politica. In realtà, la sicurezza sul lavoro è un fatto sistemico che richiede interventi strutturali: investimenti in formazione, controlli capillari, sanzioni che facciano davvero male, incentivi economici per chi investe in sicurezza.
Il cardinale Battaglia ha ragione quando dice “che nessuno le chiami più morti bianche, perché sporcano le nostre coscienze”. Non sono incidenti casuali, sono il prodotto di un sistema economico e normativo che tollera un certo livello di morti come “costo accettabile” dello sviluppo.
Le responsabilità trasversali
La tragedia napoletana mette in luce responsabilità che attraversano tutto l’arco politico. Il centrodestra è storicamente più sensibile alle esigenze delle imprese e tende a vedere nei controlli un freno alla crescita. Il centrosinistra, pur dichiarandosi più attento ai diritti dei lavoratori, quando è al governo si scontra spesso con i vincoli economici e finisce per rinviare gli investimenti strutturali sulla sicurezza.
Ma forse il problema è più profondo: in un Paese dove il lavoro nero rappresenta ancora il 12% del PIL, dove l’evasione fiscale supera i 100 miliardi l’anno, dove la cultura della legalità resta fragile, la sicurezza sul lavoro diventa inevitabilmente un obiettivo secondario.
Oltre le promesse: cosa serve davvero
Per spezzare il ciclo di morte servirebbero scelte politiche coraggiose che nessun governo, finora, ha avuto la forza di fare. Innanzitutto, un massiccio investimento nel sistema dei controlli: almeno il doppio degli ispettori attuali, con stipendi adeguati per attrarre personale qualificato. Poi, una riforma degli appalti che premi davvero la qualità sulla quantità, anche se questo significa costi maggiori per le amministrazioni pubbliche.
Serve inoltre un sistema sanzionatorio che faccia davvero male: oggi, per molte imprese, è più conveniente pagare le sanzioni (quando e se arrivano) piuttosto che investire in sicurezza. E serve, infine, una cultura politica che consideri le morti sul lavoro non come “incidenti” inevitabili, ma come sconfitte collettive di cui tutti dobbiamo rispondere.
La politica locale e le sue contraddizioni
Il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, ha parlato di “impegno concreto” per fermare le morti sul lavoro. Ma le amministrazioni locali sono spesso le prime a privilegiare il criterio del massimo ribasso negli appalti pubblici. È una contraddizione che attraversa tutti i livelli istituzionali: si piange sulle vittime e poi si continua a operare con la stessa logica che produce quelle vittime.

La verità è che la politica italiana, a tutti i livelli, non ha ancora fatto i conti fino in fondo con il prezzo umano del modello di sviluppo che ha scelto. Continuare a parlare di “fatalità” o di “incidenti” significa rimuovere le responsabilità politiche di chi ha il potere di cambiare le cose.
Vincenzo, Ciro e Luigi non sono morti per caso. Sono morti perché un sistema politico, economico e sociale li ha considerati sacrificabili. Finché non avremo il coraggio di dirlo, continueremo a contare i morti e a promettere cambiamenti che non arriveranno mai.