Marco Biagi e il ‘Libro Bianco’: ucciso 23 anni fa per le sue idee sul lavoro

Il giuslavorista senza scorta, venne freddato sotto casa dalle Nuove Brigate rosse. Era il 19 marzo 2002. Il ricordo del figlio Lorenzo.

Bologna – Il 19 marzo di 23 anni fa Marco Biagi stava rientrando da Modena, dove insegnava nella Facoltà di economia, quando venne assassinato sotto casa a Bologna, in via Valdonica. La moglie e i figli sentirono il rumore degli spari e capirono subito quello che stava accadendo. Non è un caso che il venerdì precedente l’omicidio, uscì una notizia attribuita ai servizi in cui si affermava che le nuove Brigate Rosse, che anni prima avevano ammazzato Massimo D’Antona, preparavano altre azioni nei confronti non già di personalità della politica, ma di esperti collaboratori a cui erano affidati compiti di elaborazione. Era il profilo di Marco Biagi; ma i terroristi anticiparono la riunione della commissione incaricata di reintrodurre o meno quella tutela di pubblica sicurezza che gli era stata inopinatamente tolta, lasciando il professore inerme nei confronti dei suoi assassini.

E ad agosto scorso, la notizia che Simone Boccaccini, oggi 65enne, accusato di aver partecipato ai pedinamenti nei giorni e nei mesi precedenti l’agguato mortale al giuslavorista ucciso dalle Nuove Br a Bologna il 19 marzo 2002, era uscito dal carcere dopo aver saldato i conti con la giustizia. Boccaccini era stato condannato all’ergastolo, con pena ridotta nel 2006 a 21 anni in appello in virtù del riconoscimento delle attenuanti generiche, sentenza poi confermata in Cassazione nel 2007. Una notizia che ha scatenato la rabbia di tanti, soprattutto del figlio più piccolo del giuslavorista, Lorenzo.

“E’ una notizia di cui prendo atto, si sapeva già”, ha detto il figlio di Biagi, che oggi ha 36 anni, a Repubblica“Per me non dovrebbero esserci sconti di pena per i terroristi, ma la giustizia italiana funziona così. Mi ferisce in modo profondo sapere che lui è adesso un uomo libero, ma non posso farci niente. Vado avanti e li ignoro, perché l’indifferenza nei confronti di chi ha ucciso mio babbo è il modo per andare avanti nella mia vita, che è l’unica cosa che conta”. Marco Biagi fu fu ucciso sotto casa mentre rientrava dal lavoro in bicicletta. Nel 2001 lo Stato gli aveva negato la riassegnazione della scorta nonostante si sentisse in pericolo per le minacce ricevute a causa del suo attivismo nella riforma del mondo del lavoro, da lui stesso promossa durante il Governo Berlusconi e ispirata a una maggior flessibilità dei contratti.

Per i giuslavoristi di oggi, Marco Biagi ha segnato inevitabilmente un percorso professionale tracciato dal professore e allora consulente per il ministero del Lavoro autore del “Libro Bianco”. Una blasfemia per i terroristi che ritenevano quella riforma un passo indietro sul piano dei diritti: secondo loro i lavoratori sarebbero tornati a essere solo “braccia da fatica”, come se le conquiste degli anni Settanta non fossero mai esistite. E poi la legge Biagi, che ha “creato posti di lavoro qualificati. Definirla precarizzante non rende giustizia alla sua memoria”, afferma il figlio Lorenzo Biagi, durante l’evento “Ricordando Marco Biagi” del circolo Acli. In questa occasione, in anteprima il docufilm di Massimo Esposito ’Not down’, sul tema del lavoro delle persone disabili. Il padre, ricorda il figlio, “Metteva al centro la persona. È stato il precursore di nuovi diritti per i più fragili”.

Marco Biagi

Quella sera Lorenzo aveva 13 anni ed era appena tornato da una gita a Mantova con la scuola: “Alle mie nipoti cerco di spiegare che nonno Marco va in bici per il cielo ed è sempre presente, anche se non fisicamente”, dice. Biagi ricorda anche di quando andava a vedere il Bologna con il padre e la passione comune per il calcio: “L’ultimo incontro? Mi ha detto che ci saremmo visti la sera per festeggiare il 19 marzo”. Il resto è storia, una storia terribile di una pagina nera italiana. Anche perché Marco Biagi aveva insistito per avere il rinnovo della scorta, ma le sue richieste erano state liquidate dall’allora ministro dell’Interno Claudio Scajola.

La formazione brigatista che rivendicò l’omicidio era nata pochi anni prima, quando la stagione delle Brigate rosse, iniziata nel 1970 e finita a fine anni Ottanta, volgeva al termine. L’ultima vittima delle prime Br era stato il senatore Roberto Ruffilli, consulente del presidente del Consiglio Ciriaco De Mita per le riforme istituzionali, assassinato nel 1988 con tre colpi alla nuca nella sua abitazione. Se con quell’omicidio si era conclusa la stagione di sangue delle Brigate rosse, una nuova stava per iniziare. Di lì a pochi anni nacquero infatti le Nuove Brigate rosse. La prima vittima nella rinata organizzazione terroristica era stato un altro giuslavorista consulente del ministero del Lavoro. Era Massimo D’Antona, aveva 51 anni e fu freddato a Roma il 20 maggio 1999. La rivendicazione dell’agguato arrivò poche ore dopo: 14 pagine firmate da una sigla ancora sconosciuta al grande pubblico, Nuove Brigate rosse, appunto.

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