Nel 2023 Paolo Trame raccontò alle autorità le violenze subite dal figlio. Ma la richiesta fu respinta e gli incontri con la mamma continuarono.
Trieste – C’era stato un grido d’allarme lanciato nel vuoto. Paolo Trame nel 2023 aveva denunciato quello che il figlio Giovanni gli raccontava con la voce tremante di un bambino di sette anni. “Mamma mi ha strozzato”. “Mamma mi ha infilato un dito nel sedere dicendo “così non va bene”. Parole che avrebbero dovuto far scattare ogni campanello d’allarme, attivare ogni protezione, allontanare immediatamente quel bambino da chi lo stava maltrattando. Invece quel grido d’allarme è stato archiviato. Olena Stasiuk, la madre 55enne, ha mantenuto il diritto di continuare a vedere il figlio. Mercoledì scorso quella donna ha preso un coltello e ha ucciso il piccolo Giovanni.
Ora il ministero della Giustizia sta passando al setaccio tutta la vicenda per accertare eventuali responsabilità. Perché tra la denuncia ignorata del 2023 e l’omicidio del 2025 sono trascorsi due anni in cui quel bambino è stato lasciato esposto alla violenza di chi avrebbe dovuto proteggerlo. Mesi in cui, forse, qualcuno avrebbe potuto intervenire e non lo ha fatto. Un anno che è costato la vita a Giovanni.
La cronaca di questa tragedia è fatta di segnali inascoltati e decisioni incomprensibili. Paolo Trame non si era limitato a sospettare, aveva raccolto le confidenze del figlio e le aveva portate davanti alla giustizia. Ma la giustizia ha risposto con un’archiviazione, come se quelle parole pronunciate da un bambino di sette anni fossero prive di valore, come se strozzare e abusare di un minore potessero rientrare in una qualche zona grigia interpretabile. E così Giovanni ha continuato a vedere la madre, ha continuato a essere affidato a chi lo stava distruggendo.
Sabato sera Muggia si è fermata. Oltre mille persone si sono raccolte nel Duomo per una veglia in memoria del piccolo Giovanni. Una folla silenziosa stretta attorno al dolore di Paolo Trame, che ha perso il figlio dopo aver fatto tutto il possibile per salvarlo.
Alla veglia c’erano parenti, amici, compagni di classe, amici del catechismo e delle attività sportive. C’erano il vescovo di Trieste Enrico Trevisi, il sindaco Paolo Polidori, diversi esponenti della giunta. E c’era soprattutto Paolo, il padre che aveva provato a fermare l’orrore e non era stato ascoltato. Al termine della cerimonia, la folla si è spostata dal Duomo all’altro lato della piazza, al civico 3, dove c’è la casa in cui Olena Stasiuk ha ucciso il figlio. Lì sono stati lasciati nuovi messaggi di affetto e decine di candele accese, un altare improvvisato per un bambino morto per mano di sua madre.
Venerdì scorso il Gip Francesco Antoni ha convalidato il fermo e disposto la custodia cautelare in carcere per Olena Stasiuk, che al momento è ricoverata all’ospedale Maggiore. L’accusa è omicidio volontario aggravato. Il giudice ha anche ordinato una perizia medico-psichiatrica per valutare se le condizioni della donna siano compatibili con il regime carcerario. Il pubblico ministero Alessandro Perogio, titolare dell’inchiesta, disporrà a breve l’autopsia sul corpo del bambino, dopo la quale arriverà il nulla osta per i funerali.
Ma intanto restano le domande senza risposta. Perché una denuncia così circostanziata è stata archiviata? Chi ha valutato quella richiesta e su quali basi ha deciso che non ci fossero elementi sufficienti per intervenire? Perché le parole di un bambino di sette anni che raccontava di essere strangolato e abusato non sono state ritenute degne di attenzione? E quanti altri bambini, in questo momento, stanno raccontando ai loro padri o alle loro madri storie simili che verranno archiviate, ignorate, minimizzate, fino alla prossima tragedia “annunciata”?
Resta il ricordo di un bambino di sette anni che chiedeva aiuto e non è stato salvato e resta il dovere di fare giustizia per chi non ha più voce per urlare la propria paura.