E’ richiesto uno scatto d’orgoglio alla nostra classe dirigente. Un superamento delle divisioni partitiche, per tenere testa ad un avversario dimostratosi privo di scrupoli.
La vicenda Ilva è un ottimo emblema della discrasia che talvolta distingue ciò che si afferma da ciò che realmente si intende perseguire.
I governi hanno sempre sostenuto che l’unico obiettivo era salvaguardare un’azienda strategica e le sue migliaia di posti di lavoro. Così è stata fatta una gara, è stato decretato un vincitore (ArcelorMittal), è stato stipulato un accordo con quel vincitore (Governo Gentiloni, ministro Calenda) e tale accordo prevedeva uno scudo penale.
Cosa si intende per scudo penale? Sostanzialmente una disposizione che esenta da responsabilità i soggetti gestori dell’Ilva di Taranto qualora, nel corso dell’attuazione del piano di risanamento ambientale, emergano responsabilità causate da comportamenti precedenti all’arrivo di tali gestori. Una norma comprensibile a garanzia del nuovo entrato: di certo nulla di scandaloso.
Ma “scudo penale” suona male, ricorda vagamente il privilegio, l’immunità: in tempi di voto anti-sistema, elettoralmente non paga. E allora lo scudo penale viene tolto (Governo Conte I). ArcelorMittal non la prende bene. Così viene reintrodotto (Governo Conte II. Per la serie: solo gli stolti non cambiano idea). Ma a non prenderla bene, questa volta, è l’ex ministra del sud, Barbara Lezzi, che guida una fronda di Cinquestelle arrabbiati e che, soprattutto, ha mire concrete sulle prossime regionali pugliesi. Per vincerle vuole portare in dote agli elettori più intransigenti la capitolazione dell’odiato scudo: con buona pace dell’acciaio e dei posti di lavoro. Il resto è attualità: Lezzi minaccia la caduta del Governo, propone e fa passare un emendamento al decreto “imprese”, e lo scudo svanisce nuovamente. Anche ArcelorMittal, nuovamente, non reagisce bene. E fa le valigie.
Ma questa storia, come ogni buona storia che si rispetti, si può osservare anche da un’altra prospettiva.
Quella di un’azienda leader nel settore (sempre ArcelorMittal), che partecipa ad una gara promettendo miracoli e salvaguardia di posti di lavoro, presenta un piano (per i bene informati assai discutibile in termini di concreta realizzabilità) e vince quella gara. Così facendo sbaraglia la concorrenza, azzoppa i competitors e preserva la sua posizione dominante. Raggiunto l’obiettivo, permangono però le criticità. Quindi l’azienda si parcheggia, placida, ed aspetta al varco un pretesto e, quando il Governo glielo offre sotto forma di scudo che appare e scompare, non si lascia scappare l’occasione. ArcelorMittal accusa l’Italia di mancanza di affidabilità (e su questo forse qualche ragione…), annuncia il disimpegno, raffredda i forni e pone condizioni inaccettabili al Governo per riaprire la trattativa. Tanto per cambiare: con buona pace dell’acciaio e dei posti di lavoro.
Le morali sono due.
La prima: quando la politica diceva “salvaguarderò i posti di lavoro”, avremmo in realtà dovuto intendere “voglio vincere le regionali in Puglia”; allo stesso modo, quando l’azienda sosteneva “salvaguarderò i posti di lavoro”, avremmo in realtà dovuto intendere “voglio sbarazzarmi della concorrenza”.
La seconda: fatta chiarezza terminologica, è bene ricordare che alla prima bugia si può forse ancora rimediare. Basta ascoltare Landini (non esattamente un pericoloso neoliberista), che diceva ieri, a “Piazza Pulita”: “Rimettere lo scudo penale è buonsenso, per togliere a Mittal qualsiasi alibi”. E ancora: “Tornare a usare per ragioni politiche la vicenda dell’Ilva è un errore clamoroso, perché lo si fa sulla pelle delle persone”.
E’ richiesto uno scatto d’orgoglio alla nostra classe dirigente. Un superamento delle divisioni partitiche, per tenere testa ad un avversario dimostratosi privo di scrupoli. Gli si lasci lo scudo, ma non l’alibi e poi si pretenda il rispetto degli accordi, all’interno di una trattativa o di un’aula giudiziaria.
Per una volta che è richiesto a tutti di essere “sovranisti”, sarebbe un peccato deludere le aspettative.