La violenza che chiamiamo normalità

ActionAid fotografa una realtà inquietante: un quarto degli intervistati legittima insulti e abusi psicologici se la donna “provoca”.

C’è un’Italia sommersa che emerge dai numeri di ActionAid, Osservatorio di Pavia e B2Research, e non è quella dei titoli di giornale sui femminicidi. È l’Italia degli uomini che non alzano le mani ma credono fermamente di avere diritto a controllare, limitare, umiliare. È l’Italia di chi non si riconosce nella parola “violento” eppure ritiene legittimo decidere come la propria compagna debba gestire i soldi, cosa debba indossare, con chi possa uscire. È l’Italia che normalizza la sopraffazione chiamandola relazione.

La ricerca scava dentro questa zona grigia e ne estrae una mappa scomoda. Un uomo su tre non vede nulla di strano nella violenza economica: impedire alla partner di lavorare, controllarne lo stipendio, renderla dipendente finanziariamente sono comportamenti che scivolano dentro la definizione di “normalità” per il 33% del campione. Non stiamo parlando di episodi estremi o eclatanti, ma di una forma di dominio quotidiano, subdolo, che priva le donne di autonomia senza lasciare lividi visibili.

Peggio ancora quando si entra nel territorio della violenza psicologica. Un uomo su quattro ritiene che insulti, umiliazioni e pressioni psicologiche siano accettabili se la donna “ha provocato”. Il concetto di provocazione, naturalmente, resta vago, elastico, plasmabile secondo convenienza. Può essere uno sguardo, una risposta, un’uscita con le amiche, un vestito considerato inadeguato. La logica sottostante è sempre la stessa: se lei oltrepassa un confine arbitrario stabilito da lui, allora merita una punizione. E la punizione diventa lecita, quasi educativa.

Ma la sorpresa più sconcertante arriva dall’analisi generazionale. Contrariamente a ogni narrazione consolatoria sul progresso culturale delle nuove leve, Millennials e Gen Z non solo non fanno meglio dei loro padri, ma in certi casi fanno peggio. Le percentuali di accettazione di questi comportamenti risultano più alte proprio tra chi è cresciuto nell’era dei social, del femminismo digitale, delle campagne di sensibilizzazione. Come se l’esposizione teorica al tema della parità non fosse bastata a scalfire modelli culturali radicati, tramandati, introiettati.

Quello che la ricerca mette a fuoco è un cortocircuito tra consapevolezza dichiarata e mentalità reale. Molti di questi uomini probabilmente si dichiarerebbero contrari alla violenza di genere se interpellati direttamente. Condannerebbero il femminicidio, magari parteciperebbero a una manifestazione, posterebbero un hashtag. Ma quando si scende nel concreto delle dinamiche relazionali, quando si chiede se certi comportamenti siano legittimi, la patina progressista si scrosta e affiorano schemi antichi: possesso, controllo, gerarchia.

La violenza economica e quella psicologica hanno una caratteristica comune: sono invisibili agli occhi esterni, difficili da riconoscere per chi le subisce, quasi impossibili da denunciare. Non lasciano segni fotografabili, non finiscono nei referti ospedalieri, non alimentano le statistiche che fanno scattare allarmi mediatici. Eppure costruiscono gabbie perfette, prigioni senza sbarre dove le donne restano intrappolate per anni, convinte di essere loro il problema, di meritare quel trattamento, di non avere alternative.

Il dato generazionale squarcia un’illusione pericolosa: quella secondo cui basterebbe aspettare il ricambio anagrafico per vedere scomparire il problema. La violenza contro le donne non è questione di età ma di cultura, e quella cultura attraversa le generazioni senza perdere forza. Anzi, in certi casi si rinnova, si mimetizza, adotta linguaggi e strumenti nuovi ma mantiene intatta la sostanza: il bisogno maschile di dominare, la convinzione che esistano donne che “se la cercano”, la certezza che alcuni spazi di libertà femminile vadano tenuti sotto controllo.

ActionAid consegna uno specchio in cui guardarsi e l’immagine riflessa non è quella rassicurante che vorremmo vedere. È quella di un Paese dove un terzo degli uomini crede che gestire i soldi della compagna sia un diritto, dove un quarto pensa che certe parole vadano dette se lei “esagera”, dove i ventenni e i trentenni non sono più emancipati dei cinquantenni. Uno specchio che non permette più di rifugiarsi nella favola del progresso lineare, dell’evoluzione culturale automatica, del tempo che sistema tutto. Quello che emerge è un problema strutturale, profondo, trasversale. E finché non lo si chiamerà con il suo nome, continuerà a riprodursi identico, generazione dopo generazione.