Joanna viveva accanto alla vittima e con lei condivideva non solo il pianerottolo ma anche il dramma della violenza domestica.
Cervia – Joanna e Pamela Genini erano più che semplici conoscenti: le loro vite scorrevano parallele, separate soltanto da una sottile parete divisoria in una modesta costruzione a tre piani vicino alle saline cervesi. La prima aveva accolto e sostenuto la seconda, unite dalla tragica esperienza comune di relazioni violente.
Ripensando alla sorte toccata alla giovane vicina, Joanna rivive automaticamente il proprio calvario. Ricorda il momento della svolta, quando sua figlia, all’epoca ancora bambina di nove anni, la implorò di lasciare il papà. Come riferisce La Repubblica, l’uso di quel “noi”, come se anche lei dovesse chiedere la rottura del matrimonio, colpì profondamente Joanna che finalmente avviò l’iter legale. Ma la reazione dell’uomo fu devastante: le aggressioni fisiche e gli abusi sessuali si intensificarono drammaticamente. L’escalation culminò con diverse costole fratturate che resero inevitabile il ricovero d’urgenza. Dal presidio sanitario di Cervia, Joanna venne indirizzata verso quello ravennate per gli accertamenti radiografici necessari e fu proprio questo passaggio a rivelarsi provvidenziale.
Nella nuova struttura incontrò un medico che la conosceva personalmente. Tentò la classica giustificazione dell’incidente domestico, ma il professionista non si lasciò ingannare. Chiese riservatezza e continuò a porre domande finché la donna non crollò confessando la verità. A quel punto scattò l’intervento delle autorità. Ancora oggi Joanna fatica a spiegarsi perché abbia aspettato così a lungo prima di agire, attribuendo l’inerzia a un misto di vergogna e senso di colpa. Nonostante si consideri una persona forte, trovò il coraggio di denunciare solo pensando alle figlie e alla necessità di sottrarle a quello spettacolo di orrore quotidiano.
Ai carabinieri Joanna spiegò che l’uomo si rifiutava di lasciare la casa e la costringeva a rapporti sessuali sotto la minaccia di nuove percosse. Solo dopo questa rivelazione i militari intervennero fisicamente per espellerlo dall’appartamento, imponendogli di mantenersi a distanza di sicurezza. Seguì una condanna penale con anni di detenzione, al termine dei quali abbandonò definitivamente l’Italia.
Le conseguenze psicologiche su sua figlia, oggi venticinquenne, restano profonde. La ragazza è attualmente seguita da specialisti per elaborare i traumi subiti durante gli anni critici tra i nove e i dodici. Joanna riuscì poi a cambiare residenza, ma il destino volle che proprio nell’unità abitativa adiacente alla nuova si trasferisse Gianluca Soncin.
Riflettendo sulla difficoltà di ammettere pubblicamente gli abusi subiti tra le mura domestiche, Joanna sottolinea come superare questa barriera rappresenti il passaggio cruciale. Una volta iniziato a parlare, sostiene, diventa progressivamente più semplice liberarsi completamente. Eppure Pamela aveva effettivamente cercato sostegno, senza però riuscire a salvarsi. Joanna ritiene che Soncin esercitasse principalmente un controllo psicologico basato sull’intimidazione, dato che attraverso la parete comune non percepiva tanto rumori di percosse quanto piuttosto alterchi verbali seguiti da silenzi inquietanti e dalla fuga precipitosa della ragazza all’esterno. Pamela le aveva rivelato che l’uomo possedeva armi da fuoco e quando Joanna ha appreso del gesto di puntarle una pistola contro il corpo, ogni dubbio è svanito.
Ma Pamela non era stata la prima compagna di Soncin. Prima di lei c’era stata un’altra donna, più matura anagraficamente. Anche lei aveva richiesto una volta l’intervento dei carabinieri, ma poi era letteralmente scomparsa senza più farsi vedere, evitando di procedere con un’azione legale formale. Ed è proprio questo il punto dolente secondo Joanna: per quanto drammatico e difficile, denunciare rappresenta l’unico strumento concreto per fermare individui che altrimenti continueranno a mietere vittime.