La vicenda giudiziaria di due cittadini che versano quasi 17.000 euro per un ascensore mai installato solleva interrogativi sulla tutela dei consumatori e sui limiti dell’appropriazione indebita.
Catania – La storia è semplice quanto inquietante: due persone, Salvatore Abbruzzo e Roberto Patanè, versano quasi 17.000 euro al titolare di una ditta specializzata in ascensori come acconto per l’installazione di una piattaforma elevatrice. L’imputato, Silvano Zammataro, amministratore unico della Matic Ascensori s.r.l.s., incassa il denaro ma per il lavoro campa cavallo.

Come se non bastasse, il 16 febbraio 2021 Zammataro avrebbe ammesso per iscritto l’impossibilità di avviare i lavori concordati e si impegnava formalmente a restituire la somma di 16.952 euro entro il 30 marzo 2021. Ma quella data passa invano: nessun rimborso, solo silenzio.
La battaglia legale: prime istanze e ricorso in appello
Il caso giunge davanti al GUP del Tribunale di Catania, che – con una sentenza destinata a far discutere – assolve Zammataro dall’accusa di appropriazione indebita. La motivazione? Il giudice ritiene che la somma versata come acconto fosse “priva di qualsiasi vincolo di destinazione” e che il denaro non potesse qualificarsi come “altrui” ai sensi dell’art. 646 del Codice Penale.

Una decisione che ha scatenato la reazione dell’avvocato Giuseppe Lipera, difensore delle parti civili, che nelle sue memorie difensive presentate alla Prima Sezione Penale della Corte di Appello di Catania non risparmia critiche feroci: “Una simile ricostruzione dei fatti è non solo errata ma gravemente fuorviante e clamorosamente smentita dalle prove documentali agli atti“.
Le prove che non lasciano dubbi
La difesa delle parti civili punta tutto su una serie di documenti che, secondo l’avvocato Lipera, tracciano “in maniera netta ed inequivocabile il vincolo di destinazione originario delle somme corrisposte“. Il contratto del 16 settembre 2020 aveva come oggetto esclusivo la fornitura e posa in opera della piattaforma elevatrice, mentre la clausola n. 8 del contratto imponeva espressamente il versamento anticipato come acconto vincolato all’inizio dei lavori.

A conferma del vincolo, la causale del bonifico era chiaramente indicata come “acconto per installazione piattaforma elevatrice”, così come la fattura emessa dall’imputato riportava l’identica causale. Si tratta, secondo la difesa, di “prove oggettive, precise e cristalline che impongono una sola conclusione: il denaro era vincolato a uno specifico scopo e Zammataro non ne aveva né la titolarità, né alcun diritto di disporne liberamente“.
L’analogia del meccanico: un caso lampante
“È come se si portasse l’auto dal meccanico, gli si lasciasse un acconto per i pezzi di ricambio e lui con quei soldi ci andasse in vacanza, lasciando l’auto dov’era. Se non è un reato questo, allora cos’è?“, si chiede provocatoriamente l’avvocato Lipera nelle sue memorie.
L’analogia è efficace nel rendere comprensibile a tutti la natura del comportamento contestato: un professionista che riceve un acconto per un lavoro specifico, non esegue il lavoro, promette di restituire i soldi ma poi se li tiene, commette appropriazione indebita.
La questione giuridica: quando il denaro resta “altrui”
Il punto centrale della controversia riguarda la natura giuridica del denaro versato come acconto. La sentenza di primo grado ha accolto quella che la difesa delle parti civili definisce “l’assurda teoria della confusione patrimoniale“, secondo cui la natura fungibile del denaro implicherebbe automaticamente la sua “confusione” con il patrimonio dell’imputato, escludendo così “l’altruità” necessaria per configurare il reato.
Ma la giurisprudenza della Cassazione è chiara su questo punto. Come ricorda il penalista: “Il denaro costituisce oggetto di appropriazione quando l’agente se ne avvalga per fini personali, in violazione del vincolo di destinazione impostogli dal proprietario al momento della consegna” (Cass. pen., Sez. II, sent. n. 15566/2021). In un’altra pronuncia, la Suprema Corte ha stabilito che “integra il delitto di appropriazione indebita la condotta del venditore di cosa di terzi che si impossessi dell’importo corrisposto a titolo di acconto sul prezzo pattuito, violando, attraverso l’utilizzo personale, la specifica destinazione di scopo ad esso impressa dal proprietario al momento della consegna”.
Le conseguenze di una deriva pericolosa
La preoccupazione della difesa va oltre il singolo caso: “Pretendere che la confusione patrimoniale possa cancellare l’altruità del denaro significa aprire le porte a una pericolosissima deriva giurisprudenziale, che renderebbe astrattamente impossibile perseguire qualsiasi appropriazione indebita in cui la ‘res’ sia rappresentata da somme di denaro“.
In altre parole, se dovesse prevalere questa interpretazione, chiunque riceva un acconto per un lavoro potrebbe tenersi i soldi senza conseguenze penali, semplicemente sostenendo che il denaro è diventato “suo” una volta entrato nel suo patrimonio. Una prospettiva che, secondo la difesa delle parti civili, equivarrebbe a “legalizzare la sottrazione fraudolenta a danno di terzi”.
L’amarezza della difesa per l’inerzia della Procura
Non mancano, nelle memorie difensive dell’avvocato Lipera, le critiche rivolte alla Procura per la scelta di non impugnare la sentenza di primo grado. “Questa difesa non può esimersi dal manifestare profonda amarezza per la scelta, consapevole e ponderata, dei Pubblici Ministeri di non impugnare la sentenza di primo grado, aderendo in toto alla ricostruzione del GUP, pur a fronte di evidenze documentali e giurisprudenziali che avrebbero imposto una valutazione ben diversa dei fatti e della responsabilità penale dell’imputato”, scrive il legale.

Secondo la difesa delle parti civili, anche l’accusa avrebbe sottovalutato la gravità dei fatti e la solidità delle prove a carico dell’imputato, lasciando ai soli danneggiati l’onere di portare avanti la battaglia legale in sede di appello.
Un caso emblematico
Il caso Zammataro rappresenta un test importante per il sistema giudiziario italiano. Da una parte ci sono due cittadini che hanno versato una somma consistente per un servizio mai ricevuto e mai rimborsato. Dall’altra un’interpretazione della legge che, se confermata, potrebbe aprire pericolosi precedenti.
La Corte d’Appello di Catania avrà ora il compito di dirimere questa controversia, decidendo se confermare una sentenza che già fa discutere o accogliere le ragioni di chi chiede giustizia per quella che appare, almeno sulla carta, come una appropriazione indebita fin troppo evidente.
La vicenda si inserisce in un contesto più ampio di tutela dei consumatori e dei cittadini che, sempre più spesso, si trovano a dover fronteggiare professionisti poco scrupolosi che incassano acconti senza poi fornire i servizi promessi.