Francesco Ancona

Il delitto dimenticato: la verità sul caso Ancona riemerge dopo 40 anni

Un cold case del 1987 torna sotto i riflettori: tra vecchi sospetti, nuove prove forensi e una vedova sotto accusa per un altro tentato omicidio, si riapre il giallo di Francesco Ancona.

Pavia – Nel panorama della cronaca nera italiana, alcuni casi rimangono impressi nella memoria collettiva per la loro complessità e per le zone d’ombra che li caratterizzano. Il caso di Francesco Ancona appartiene a quella categoria di cold case che, a distanza di decenni, continuano a interrogare investigatori e opinione pubblica, dimostrando come la ricerca della verità non conosca prescrizione temporale.

Il contesto storico e sociale degli anni ’80

Per comprendere appieno la vicenda di Francesco Ancona, è necessario ricostruire il contesto socio-economico dell’Italia di fine anni ’80. Siamo nel 1987, in pieno boom economico post-industriale ma anche in un’epoca di profonde trasformazioni sociali. Il fenomeno migratorio interno, che aveva visto milioni di meridionali trasferirsi al Nord in cerca di lavoro, aveva creato comunità diasporiche spesso caratterizzate da legami solidali ma anche da tensioni e conflitti interni.

Francesco Ancona rappresentava perfettamente questa realtà: siciliano di Castellammare del Golfo trasferitosi in Lombardia, sposato con tre figli, inserito nel tessuto produttivo locale come operaio edile.

Castellammare del Golfo, città d’origine di Francesco Ancona

La sua storia personale si intrecciava con quella di migliaia di altri lavoratori meridionali che avevano contribuito al miracolo economico del Nord Italia, portando con sé tradizioni, codici comportamentali e, talvolta, anche problematiche legate alle loro terre d’origine.

L’11 febbraio 1987

La mattina dell’11 febbraio 1987, il corpo di Francesco Ancona viene rinvenuto lungo la strada provinciale che collega Mortara a Ceretto Lomellina, nel cuore della Lomellina pavese. La zona, caratterizzata da ampi spazi agricoli e da un traffico di mezzi pesanti diretti verso i centri industriali della pianura padana, non era nuova a incidenti stradali, spesso mortali.

Le prime ricostruzioni degli inquirenti delineano un quadro apparentemente chiaro: un uomo di 48 anni, provato da difficoltà economiche e personali, che decide di porre fine alle proprie sofferenze. Ancona era infatti rimasto senza lavoro, una condizione particolarmente drammatica per un capofamiglia con tre figli a carico. Le testimonianze raccolte all’epoca dipingevano il ritratto di un uomo sempre più chiuso in sé stesso, afflitto da problemi di salute e da un rapporto matrimoniale deteriorato.

La strada che collega Mortara con Ceretto Lomellina

La dinamica ipotizzata dagli investigatori era quella classica del suicidio per investimento: la vittima si sarebbe posizionata deliberatamente sulla carreggiata in attesa del passaggio di un mezzo pesante. Un gesto estremo ma non inusuale.

I primi dubbi

Tuttavia, fin dai primi accertamenti medico-legali, alcuni elementi non quadravano perfettamente con l’ipotesi del suicidio. L’autopsia, eseguita presso l’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Pavia, rivelò una serie di lesioni che, pur essendo compatibili con un investimento, presentavano caratteristiche peculiari.

Un giornale dell’epoca

La frattura alla base cranica, le ferite lacerocontuse alla tempia destra e il vasto ematoma alla mascella suggerivano un trauma di notevole violenza ma concentrato prevalentemente nella regione cefalica. Questo aspetto risultava anomalo per un investimento da parte di un mezzo pesante, che solitamente provoca lesioni diffuse su tutto il corpo.

Come riportava Il Giorno nell’edizione del 12 febbraio 1987, l’autopsia avrebbe dovuto fornire risposte definitive ma alimentò ulteriori interrogativi. Il medico legale dell’epoca, pur non escludendo l’ipotesi dell’incidente stradale, annotò alcune perplessità nel proprio rapporto, perplessità che sarebbero rimaste lettera morta per quasi quattro decenni.

Il profilo psicologico della vittima: un uomo in crisi

I testimoni dell’epoca descrivevano Francesco Ancona come un uomo profondamente cambiato rispetto al passato, sempre più taciturno e apparentemente rassegnato.

La perdita del lavoro aveva rappresentato un trauma significativo per Ancona, non solo dal punto di vista economico ma anche identitario. Per un uomo cresciuto con i valori tradizionali del Sud Italia, dove il ruolo di capofamiglia e breadwinner è centrale nell’identità maschile, la disoccupazione rappresentava una ferita narcisistica difficile da elaborare.

A questo si aggiungevano i problemi di salute, mai specificati nei documenti dell’epoca ma sufficientemente gravi da influire sul suo stato d’animo. La combinazione di difficoltà economiche, fisiche e relazionali aveva creato un cocktail esplosivo che, almeno in apparenza, giustificava l’ipotesi del gesto estremo.

Giovanna Navarra: ritratto di una vedova sospetta

Al centro della nuova inchiesta si trova Giovanna Navarra, moglie di Francesco Ancona. Il suo comportamento nei giorni successivi alla tragedia e negli anni seguenti ha attirato l’attenzione degli investigatori, portando alla sua iscrizione nel registro degli indagati quasi quarant’anni dopo.

La sera del 10 febbraio 1987, Giovanna si presenta dai carabinieri per denunciare la scomparsa del marito. Il suo racconto è dettagliato: si erano dati appuntamento alla stazione di Vigevano per prendere insieme il treno ma Francesco non si era presentato. Preoccupata, aveva deciso di tornare a casa e poi di rivolgersi alle forze dell’ordine.

Questo racconto, accettato all’epoca senza particolari verifiche, presenta oggi alcune incongruenze che hanno insospettito i magistrati. Perché proprio Vigevano? Quale era la destinazione del viaggio? Perché Ancona avrebbe dovuto raggiungere la moglie alla stazione invece di partire insieme da casa?

Negli anni successivi alla morte del marito, Giovanna Navarra ha mantenuto un profilo relativamente basso, dedicandosi alla crescita dei tre figli.

Domenico Scarfò: l’amico di famiglia nell’ombra

Il secondo indagato, Domenico Scarfò, rappresenta una figura chiave nella nuova ricostruzione degli eventi. Oggi settantenne, originario di Vigevano, era considerato un amico di famiglia degli Ancona, una di quelle presenze discrete ma costanti che caratterizzano spesso le comunità di emigrati meridionali al Nord.

Il legame tra Scarfò e la famiglia Ancona risaliva agli anni ’70, quando entrambi gli uomini lavoravano nel settore edile della zona. Una frequentazione che si era intensificata nel tempo, tanto da rendere Scarfò una presenza abituale nella casa di via Molino Prete Marcaro a Mortara.

Alla luce delle nuove indagini, Scarfò avrebbe svolto il ruolo di esecutore materiale dell’omicidio, su mandato di Giovanna Navarra. La sua conoscenza del territorio, delle abitudini di Francesco e della dinamica familiare lo avrebbe reso il complice ideale per un delitto che doveva apparire come un suicidio.

Un giornale dell’epoca

La nuova ipotesi investigativa delinea un piano di omicidio di straordinaria complessità, che dimostra una conoscenza approfondita delle tecniche forensi e delle procedure investigative dell’epoca. Secondo la ricostruzione del PM Alberto Palermo, il delitto si sarebbe articolato in diverse fasi, ciascuna studiata per confondere le acque e depistare le indagini.

Il primo passo del presunto piano criminale sarebbe stato l’avvelenamento di Francesco Ancona, probabilmente attraverso la somministrazione di sostanze che ne avrebbero indebolito le capacità di reazione senza provocare sintomi immediatamente riconoscibili.

L’avvelenamento avrebbe avuto una duplice funzione: rendere la vittima incapace di difendersi efficacemente e creare le condizioni per un eventuale depistaggio delle indagini, mascherando l’omicidio dietro un apparente malore o stato confusionale che avrebbe giustificato il presunto suicidio.

Seconda fase: l’aggressione fisica

Una volta indebolito dal veleno, Ancona sarebbe stato aggredito con un oggetto contundente, probabilmente metallico, che avrebbe provocato le lesioni craniche riscontrate dall’autopsia.

L’uso di un oggetto contundente, piuttosto che di un’arma da taglio o da fuoco, era funzionale alla strategia di depistaggio: le lesioni provocate dovevano essere compatibili con quelle che si sarebbero verificate in caso di investimento da parte di un mezzo pesante.

Il corpo ricoperto con della benzina rappresenta forse l’elemento più inquietante dell’intera ricostruzione. Questa operazione avrebbe avuto lo scopo di confondere gli odori e di giustificare eventuali tracce di accelerante che sarebbero potute emergere dai rilievi forensi, facendole apparire come conseguenza di un eventuale spargimento di carburante dal mezzo investitore.

L’investimento con il mezzo pesante, presumibilmente una betoniera, rappresentava il momento culminante della messinscena. L’uso di questo tipo di veicolo non era casuale: le betoniere, per il loro peso e per la conformazione del tambour rotante, sono in grado di provocare lesioni devastanti che avrebbero dovuto mascherare quelle inflitte precedentemente.

La scelta del luogo dell’investimento era altrettanto strategica: la strada provinciale tra Mortara e Ceretto Lomellina era nota per il traffico di mezzi pesanti, rendendo plausibile la dinamica dell’incidente.

Nonostante l’apparente plausibilità della ricostruzione ufficiale, diversi elementi emersi fin da subito non si incastravano perfettamente con l’ipotesi del suicidio. Questi dettagli, trascurati o sottovalutati all’epoca, assumono oggi una rilevanza cruciale alla luce della nuova inchiesta.

Le lesioni anomale

L’aspetto più inquietante riguardava la distribuzione delle lesioni sul corpo di Ancona. In caso di investimento da parte di un mezzo pesante, ci si aspetterebbe di trovare traumi diffusi, fratture multiple e lesioni da trascinamento. Invece, le ferite erano concentrate prevalentemente nella regione cefalica, mentre il resto del corpo appariva relativamente integro.

Inoltre, gli abiti della vittima non presentavano i tipici segni di trascinamento sull’asfalto che caratterizzano gli investimenti stradali. Questo dettaglio, apparentemente marginale, acquisisce oggi un significato importante nella ricostruzione della dinamica del delitto.

Il timing della scoperta

Un altro elemento anomalo riguardava i tempi di scoperta del cadavere. Nonostante la strada fosse relativamente trafficata, soprattutto nelle ore diurne, il corpo di Ancona rimase inosservato per diverse ore.

Se davvero si fosse trattato di un suicidio, sarebbe logico aspettarsi che Ancona avesse scelto un momento di maggior traffico per garantire l’efficacia del gesto. Il fatto che il corpo sia stato scoperto solo al mattino suggerisce che la morte sia avvenuta durante la notte, in un momento in cui il traffico era molto ridotto.

L’odore di benzina

Particolarmente significativa è la testimonianza di una delle figlie di Ancona, all’epoca tredicenne, che ricorda distintamente di aver sentito un forte odore di benzina avvicinandosi al corpo del padre. Questo dettaglio, che potrebbe essere stato liquidato come conseguenza di una perdita di carburante dal veicolo investitore, assume oggi una valenza completamente diversa.

L’odore di benzina, se confermato, rappresenterebbe una prova importante a sostegno della tesi dell’omicidio, dimostrando l’uso di accelerante per mascherare le tracce del delitto. Si tratta di un elemento che, nelle indagini degli anni ’80, probabilmente non è stato adeguatamente approfondito per mancanza di tecnologie forensi appropriate.

Il precedente del 2023: le ombre del passato riemergono

La decisione di riaprire il caso di Francesco Ancona è stata innescata da eventi recenti che hanno gettato nuova luce sulla personalità e sui comportamenti di Giovanna Navarra. Nel 2023, la vedova è finita sotto processo per tentato omicidio nei confronti del figlio cinquantaduenne, un episodio che ha rivelato aspetti inediti del suo carattere.

Dopo la morte del marito, Giovanna Navarra aveva deciso di lasciare Mortara per tornare in Sicilia, stabilendosi a Castellammare del Golfo. Uno dei figli, ormai adulto, aveva scelto di seguirla, dando vita a una convivenza che si sarebbe rivelata sempre più problematica. I rapporti tra madre e figlio si erano progressivamente deteriorati, sfociando in conflitti quotidiani che avevano reso la situazione insostenibile. Secondo le ricostruzioni processuali, Giovanna aveva iniziato a considerare l’eliminazione fisica del figlio come unica soluzione ai loro problemi di convivenza.

L’escalation della situazione aveva portato Giovanna Navarra a compiere un passo estremo: il tentativo di ingaggiare un sicario per uccidere il figlio. Le indagini della Procura di Trapani avevano documentato i contatti tra la donna e il presunto killer, rivelando una personalità capace di pianificare azioni violente con lucidità e premeditazione. Sebbene sia stata successivamente assolta per vizi processuali, l’episodio ha fornito agli investigatori un quadro completamente nuovo della personalità di Giovanna Navarra.

L’intercettazione rivelatrice

Durante le indagini per il tentato omicidio del figlio, una specifica intercettazione telefonica ha attirato l’attenzione degli investigatori pavesi. Quando l’uomo scelto come sicario chiede esplicitamente a Giovanna se fosse stata lei a uccidere il marito Francesco, la reazione della donna è stata eloquente.

Invece di negare con veemenza o di mostrare indignazione per un’accusa così grave, Giovanna aveva risposto con un laconico e ripetuto “ciao”, chiudendo immediatamente la comunicazione. Una reazione che, per gli inquirenti, è apparsa più come un’ammissione di colpa che come una negazione.

L’evoluzione delle tecniche investigative

Uno degli aspetti più affascinanti della riapertura del caso Ancona riguarda l’evoluzione delle tecniche investigative e forensi negli ultimi quarant’anni. Metodologie che erano impensabili negli anni ’80 sono oggi standard nelle indagini per omicidio, aprendo possibilità investigative prima inimmaginabili. L’autopsia del 1987 era stata condotta con le tecnologie disponibili all’epoca, che risultano oggi primitive rispetto agli standard attuali. La nuova autopsia, affidata a un team di esperti guidati dall’anatomopatologa Elena Cattaneo, utilizzerà strumentazioni e metodologie all’avanguardia.

La spettrometria di massa permetterà di identificare eventuali tracce di veleno rimaste nei tessuti, anche dopo decenni di decomposizione. L’analisi istologica potrà fornire informazioni precise sulla dinamica delle lesioni, distinguendo tra traumi da investimento e traumi da percosse. La radiologia digitale consentirà una ricostruzione tridimensionale delle fratture, fornendo elementi decisivi per comprendere la dinamica dell’aggressione. Particolare importanza assume l’analisi tossicologica dei resti di Francesco Ancona. Le moderne tecniche di spettrometria permettono di identificare sostanze tossiche anche in campioni altamente degradati, aprendo la possibilità di confermare o smentire l’ipotesi dell’avvelenamento.

Se dovessero essere identificate tracce di sostanze tossiche non compatibili con farmaci o con l’ambiente di decomposizione, si tratterebbe di una prova decisiva a favore della tesi dell’omicidio. Al contrario, l’assenza di tali sostanze non escluderebbe necessariamente l’omicidio ma renderebbe più difficile dimostrare la premeditazione. In questo caso specifico, particolare importanza assumono anche le testimonianze dei figli di Ancona, all’epoca minorenni e oggi adulti. I ricordi infantili, pur essendo soggetti a distorsioni, possono conservare dettagli che erano sfuggiti agli adulti dell’epoca.

La riapertura del caso Ancona presenta sfide processuali uniche, legate principalmente al lungo periodo trascorso dai fatti. Il diritto processuale penale italiano prevede specifiche garanzie per i casi di prescrizione, ma l’omicidio volontario non è soggetto a prescrizione, permettendo – qualora vi fossero elementi a sufficienza – un processo anche dopo decenni.

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