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Il caso Bebawi: il primo giallo mediatico che sconvolse la Roma della Dolce Vita

Sessantuno anni fa l’omicidio di Faruk Chourbagi in via Lazio aprì il processo del secolo con il “teorema Leone”, che fece storia nel diritto italiano.

Roma – Era il 20 gennaio 1964 quando una telefonata disperata alla polizia di Roma diede inizio a quello che sarebbe passato alla storia come il primo grande giallo mediatico italiano. “Polizia? Fate presto, please!”. Dall’altro capo della cornetta c’era Karin Arbib, segretaria della società tessile Tricotex, che aveva appena scoperto il corpo senza vita del suo datore di lavoro nell’ufficio di via Lazio 9, a due passi da via Veneto.

Correva l’anno memorabile del boom economico: Mary Quant aveva appena lanciato la minigonna da Londra e Gigliola Cinquetti si preparava a conquistare Sanremo con “Non ho l’età”, quando un orrendo delitto commesso a due passi dal cuore pulsante della Dolce Vita romana conquistò le prime pagine di tutti i giornali. Era il mix perfetto per catturare l’attenzione del pubblico: le tre S – soldi, sesso, sangue – erano tutte rappresentate in un cocktail esplosivo.

La vittima: un playboy dalla bellezza fatale

La vittima era Faruk Chourbagi, 27 anni non ancora compiuti, rampollo di famiglia benestante libanese nato in Egitto e trasferitosi nella Capitale per affari e per non perdersi i fasti della vita mondana romana. Il giovane imprenditore, figlio di un ex ministro egiziano in esilio, era molto conosciuto nei salotti dell’aristocrazia romana per la sua fama di playboy dal fascino tenebroso e “un nome da re”, come lo definirono i giornali dell’epoca.

Chourbagi era il tipico rappresentante della nuova borghesia internazionale che gravitava attorno alla Roma degli anni Sessanta: ricco, affascinante, con un giro di conoscenze che spaziava dall’alta società agli ambienti imprenditoriali. La sua società tessile Tricotex era solo una delle sue attività, mentre la sua vera passione sembrava essere la conquista delle donne più belle e affascinanti della Capitale.

Una scena del crimine degna di Tarantino

La scena che si presentò agli occhi degli investigatori guidati dal commissario Nicola Scirè era raccapricciante e degna del più splatter dei film: macchie di sangue ovunque, finestre serrate, odore di morte nell’aria. Il corpo di Chourbagi giaceva carponi tra scrivania e divano, in una pozza di sangue che si era ormai rappreso.

Il volto del giovane era completamente crivellato da quattro colpi di pistola calibro 7.65, ma l’elemento più agghiacciante era l’acido – vetriolo – versato goccia a goccia su naso, occhi e bocca per sfigurare per sempre la bellezza che lo aveva contraddistinto. Un gesto che tradiva una ferocia particolare, un desiderio non solo di uccidere ma di cancellare per sempre quello che Faruk rappresentava: il fascino, la seduzione, il potere di attrazione che esercitava sulle donne.

L’uso dell’acido dava al delitto “un’impronta femminile”, come notarono subito gli inquirenti. Non era solo un omicidio, era una punizione simbolica, un tentativo riuscito di strappare alla vittima ciò che più lo caratterizzava: la sua avvenenza.

Il triangolo amoroso che infiammò l’Italia

Per il commissario Scirè le indagini sembravano in discesa. I sospetti si concentrarono immediatamente sui coniugi Bebawi: Youssef, industriale egiziano di 37 anni laureato in Economia negli Stati Uniti, e sua moglie Gabrielle detta Claire, 30 anni, descritta dai giornali con “occhi verdi da gatta” e le “gambe affusolate” che avevano fatto perdere la testa a Faruk.

Claire Bebawi

La relazione tra Claire e Chourbagi durava da tre anni ed era un segreto di Pulcinella negli ambienti che frequentavano. Lei faceva avanti e indietro dalla Svizzera, dove viveva con marito e tre figli, per incontrare segretamente il giovane imprenditore nei loro appuntamenti clandestini a Roma. Un ménage à trois consolidato e, a suo modo, accettato da tutti i protagonisti.

Youssef aveva scoperto la relazione extraconiugale e, seguendo la legge coranica, aveva formalmente ripudiato la moglie pur continuando a vivere con lei per il bene dei figli. Nel frattempo si era consolato iniziando una relazione con la babysitter dei bambini ma la gelosia e l’orgoglio ferito erano un tarlo che non smetteva di tormentarlo. I giornali lo descrissero come un uomo “con quello sguardo furbo da arabo, freddo, calcolatore” che “avrebbe potuto diventare anche parecchio cattivo”.

Ma il quadro si complicava ulteriormente con l’ingresso in scena di un quarto personaggio: la contessa Patrizia De Blanck, allora ventenne valletta del programma televisivo “Il Musichiere”, che aveva da poco iniziato una relazione con Chourbagi. Era con lei che il giovane imprenditore aveva un appuntamento la sera del 18 gennaio per andare a un Gran Ballo a Palazzo Doria, appuntamento al quale non si sarebbe mai presentato.

Gli indizi schiaccianti e la fuga verso sud

Le prove contro i coniugi Bebawi sembravano schiaccianti fin dai primi accertamenti. Primo elemento: Faruk era stato ucciso sicuramente nel tardo pomeriggio di sabato 18 gennaio, perché fino alle 17 era stato visto vivo dal portiere dello stabile, mentre la sera alle 23 aveva mancato l’appuntamento con la De Blanck.

Secondo elemento ancora più compromettente: proprio quel sabato i Bebawi erano arrivati a Roma in aereo da Losanna, avevano preso una stanza in un hotel dal quale si erano allontanati alle 17.30 (proprio nell’orario del delitto) e infine, disdetta la camera appena occupata, erano partiti per Napoli con un treno delle 19.20, con l’evidente intenzione di raggiungere Brindisi e imbarcarsi per l’estero. Da cosa fuggivano se non dalla mattanza di via Lazio?

Il terzo indizio arrivò come una conferma, neanche troppo inaspettata, dagli 007 dell’Interpol: Claire aveva acquistato una boccetta di vetriolo in Svizzera prima di partire per l’Italia, mentre Youssef possedeva una calibro 7.65, stesso tipo e calibro dell’arma che aveva fatto fuoco quattro volte contro Chourbagi.

La fuga dei coniugi finì in Grecia, dove furono arrestati un attimo dopo l’atterraggio ad Atene. Ma da questo momento, invece di sgonfiarsi perché virtualmente risolto, il caso Bebawi deflagrò sui giornali e tabloid, invase i notiziari televisivi in bianco e nero, eccitò il bel mondo dei salotti, contagiò uomini di legge, politici e intellettuali.

Il processo-spettacolo che divise l’Italia

Il processo si aprì nell’autunno del 1965 in un clima di isteria mediatica mai visto prima in Italia. Il carcere di Rebibbia non aveva scalfito la coppia: Claire si presentava alle udienze avvolta in pellicce d’agnello, seguita dalla scia di profumi costosi con cui aveva riempito la sua cella e inseguita da folle di ammiratori che speravano di incontrarla. Youssef appariva invece sempre azzimato, elegante e sicuro di sé, con “quel passo deciso” che colpì i cronisti dell’epoca.

Il processo divenne un evento mondano: personaggi famosi, intellettuali, curiosi si accalcavano nel Palazzo di Giustizia per assistere alle udienze. I giornali dedicavano intere pagine alle cronache processuali, analizzando ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo dei protagonisti.

Giovanni Leone

Da prima pagina erano anche gli avvocati difensori, tutti principi del Foro romano: Claire aveva scelto Giovanni Leone, avvocato intelligentissimo già lanciato in politica e futuro Presidente della Repubblica. Youssef non era stato da meno, affidandosi a Giuliano Vassalli, che sarebbe diventato Guardasigilli e padre del nuovo codice di procedura penale.

La strategia geniale: “Tu accusi me, io accuso te”

Durante le 142 udienze che si protrassero per un anno e mezzo davanti alla Corte d’Assise di Roma, emerse una strategia difensiva geniale quanto cinica. Le prove inizialmente solidissime iniziarono a evaporare per il “combinato disposto dell’autodifesa” dei due coniugi: ognuno accusava l’altro del delitto materiale.

Claire sosteneva con convinzione che fosse stato il marito a sparare dopo averli sorpresi insieme nell’ufficio: “Io nella stanza non sono mai entrata, l’aspettavo di sotto”, dichiarava invece Youssef con altrettanta fermezza. Ma chi aveva sparato realmente? Chi aveva versato il vetriolo? Claire voleva solo punire Faruk senza ucciderlo? Lo amava ancora nonostante tutto? E perché l’arma del delitto non fu mai ritrovata?

Le domande si moltiplicavano senza trovare risposte definitive. La strategia dell‘”io accuso te e tu accusi me, così veniamo assolti tutti e due” funzionò perfettamente, lasciando i giudici senza certezze sufficienti per una condanna all’ergastolo.

Le cronache immortali di Oriana Fallaci

Il caso Bebawi diventò anche una straordinaria storia di costume, un faro acceso sugli “ineffabili abissi dell’animo umano”, soprattutto grazie ai reportage di una Oriana Fallaci in stato di grazia. La giornalista seguì tutto il processo per L’Europeo, regalando ai lettori cronache memorabili che sono rimaste nella storia del giornalismo italiano.

“Che strano processo signor Bebawi, signora Bebawi”, scriveva la Fallaci. “Quei carabinieri col cappello a lucerna, quei giudici popolari con la fascia tricolore, quegli avvocati con la toga a pipistrello…”. E ancora: “Ma quale assurdo destino vi ha portati fin qui, tra gente che non capite perché parla italiano, e non vi capisce perché parlate inglese e francese, di conseguenza ci vogliono gli interpreti, però agli interpreti danno 700 lire al giorno non di più, e per 700 lire siete tradotti alla meglio, il pubblico brontola ‘che dice? che disse?’, i giornalisti ammucchiati come corvi sapienti sghignazzano…”

Ma l’analisi più penetrante riguardava il movente del delitto: “Quello ammazza la moglie per riscuoter la polizza, quell’altra il marito per sposarsi l’amante, non capita quasi più nessuno che uccida per placare un sentimento di odio, odio e basta. Il vostro caso, cioè. Che sia stato lei, signor Bebawi, che sia stata sua moglie, che siate stati voi due insieme, cosa ci guadagnavate a uccidere? Lei, Faruk, non ci guadagnava il denaro, sua moglie non ci guadagnava le nozze, nessuno dei due ci guadagnava la pace…”

Il “teorema Leone” e l’assoluzione storica

Il 22 maggio 1966, dopo 29 ore di camera di consiglio, i sei giudici popolari e i due togati scelsero di non scegliere. I Bebawi furono assolti per insufficienza di prove, con una sentenza che fece storia nel diritto italiano.

Da quel giorno nei manuali di diritto penale entrò il celebre “teorema Leone”, che il futuro Capo dello Stato aveva sintetizzato magistralmente nella sua arringa: “Impossibile condannare senza prove due imputati che si rinfacciano reciprocamente lo stesso reato”.

Il paradosso fu evidenziato dal Corriere d’Informazione del giorno seguente con un titolo che conteneva due parole in grassetto: “I Bebawi assolti e liberati, ma uno di loro HA UCCISO”. La sentenza fu accolta da un applauso scrosciante delle mille persone assiepate nel Palazzo di Giustizia: non tutti erano innocentisti, molti simpatizzavano semplicemente con chi era riuscito a “gabbare la legge” con astuzia.

L’epilogo controverso e le condanne fantasma

L’assoluzione doveva essere solo l’inizio di un epilogo ancora più controverso. Non appena i secondini aprirono le porte del carcere, i due ex coniugi presero strade diverse: Youssef rientrò in Svizzera dove sposò la babysitter con cui aveva intrapreso la relazione, mentre Claire preferì tornarsene con i figli in Egitto, dove si reinventò una nuova vita come guida turistica.

Un giornale dell’epoca

Ma la giustizia italiana non aveva finito con loro. Nel 1968, in appello, i Bebawi furono condannati a 22 anni di reclusione: lui per responsabilità materiale, lei per concorso morale. Una sentenza emessa però in assenza di nuovi elementi probatori: la pistola non era mai stata trovata, le impronte digitali non erano state rilevate, il cappotto di Claire con le presunte bruciature di vetriolo era andato addirittura perduto nell’Ufficio corpi di reato.

Nel 1972, dopo un annullamento della Cassazione, la Corte d’Appello di Firenze confermò le condanne a 22 anni ma ormai i protagonisti erano al sicuro: né la Svizzera né l’Egitto contemplavano accordi di estradizione con l’Italia. Le condanne rimasero sulla carta, alimentando il dibattito su quello che alcuni definirono “lodevole garantismo” e altri “una gigantesca topica giudiziaria”.

Patrizia De Blanck: “Il movente fui io!”

Tra i protagonisti di questa vicenda che appassionò l’Italia intera per mesi, spicca la figura della contessa Patrizia De Blanck, allora ventenne.

“Il movente fui io!” ha sempre sostenuto la De Blanck negli anni, senza mai cambiare versione. “Faruk l’avevo appena conosciuto a una festa, era simpaticissimo, molto dolce. Stravedeva per me. Pensi che pochi giorni prima avevo organizzato un ricevimento a casa mia, in via Petrella ai Parioli, per presentarlo agli amici, e che la notte precedente avevamo dormito insieme…”

Patrizia De Blanck

Secondo il suo racconto, l’arrivo dei Bebawi dalla Svizzera segnò la fine di Chourbagi: “Lei si sentiva tradita e lo voleva morto, tutto qua. Il più classico dei delitti di gelosia. Il resto è colore, gossip…”. Sessant’anni dopo, le domande fondamentali restano senza risposta: chi premette realmente il grilletto? Chi versò l’acido sul volto di Faruk? Fu un delitto premeditato o un raptus di gelosia?

Il caso segnò l’inizio dell’era dei grandi processi mediatici in Italia, anticipando di decenni quella spettacolarizzazione della giustizia che sarebbe diventata una caratteristica del nostro sistema. Fu il primo grande “processo-show”, con il pubblico che si identificava nei protagonisti, parteggiava, si appassionava come davanti a un romanzo d’appendice.

Ma il caso Bebawi fu anche uno spaccato dell’Italia del boom economico, dei suoi eccessi, delle sue contraddizioni. La Roma della Dolce Vita, con i suoi salotti internazionali, i suoi intrighi amorosi, le sue passioni fatali, trovò nel triangolo Bebawi-Chourbagi-De Blanck la sua rappresentazione più emblematica.

Un delitto che parlava di un’epoca in cui tutto sembrava possibile, anche cavarsela dopo aver commesso un omicidio, purché si avessero i soldi per permettersi i migliori avvocati e l’intelligenza per escogitare la strategia processuale più geniale della storia giudiziaria italiana.

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