Roma – I bambini sono veicoli di trasmissione del Covid-19 oppure hanno una carica virale minore rispetto agli adulti e quindi non lo sono? Una risposta definitiva, purtroppo, finora non è stato possibile darla. Serviranno, forse, diversi mesi prima di avere delle conferme definitive e, nel frattempo, si stanno moltiplicando studi e ricerche per saperne di più. Una ricerca italiana condotta dall’ospedale Buzzi di Milano ha osservato come dal gennaio scorso siano state riscontrate numerose polmoniti anomale nei più piccoli che soltanto pare siano riconducibili al virus. Il direttore responsabile della Pediatria, Gian Vincenzo Zuccotti, ha dichiarato che tosse e febbre non passavano mai e che la diffusione era partita prima in età pediatrica. Eppure un recente studio francese pubblicato sulla rivista specializzata Clinical Infectious Disease ha analizzato il caso di un bambino di 9 anni affetto da Coronavirus che, dopo avere avuto contatti con 172 persone, non ne ha infettata neanche una.
Questo probabilmente perché, come ha specificato l’epidemiologo Kostas Danis, il bambino presentava solo sintomi lievi. Dunque una bassa carica virale. In un altro studio pubblicato sul British Medical Journal, i ricercatori Alasdair P.S. Munro e Saul N. Faust, affermano che ”I bambini non sono super-diffusori del virus: è ora di tornare a scuola”, indicando che solo il 2% sotto i 18 anni è risultato positivo alla Sars-Cov2 in Cina, Italia e Stati Uniti. L’ospedale Bambin Gesù di Roma, eccellenza italiana e mondiale per la diagnosi e il trattamento delle malattie rare, ha ipotizzato un minor coinvolgimento dei bimbi in quanto di per sé maggiormente esposti alle infezioni degli altri Coronavirus, come ad esempio quelli del raffreddore e, quindi, in grado di avere una maggiore difesa rispetto al nuovo agente virale.
Anche in Islanda, dove sono stati effettuati screening di massa, i ricercatori dell’Università di Reykjavik, hanno scoperto che i bambini minori di dieci anni diffonderebbero il virus solo in presenza di una sintomatologia importante. Lo studio, apparso lo scorso 14 aprile sul New England Journal of Medecine, ha coinvolto il 6% della popolazione (circa 22.300 persone) e confermerebbe i risultati con uno studio di Guangzhou, in Cina, secondo il quale i bambini contrarrebbero l’infezione nel 5% dei casi. Si verrà a conoscenza, non prima di sei mesi, dei risultati di una ricerca americana del National Institute of Health in collaborazione con la Venderbil University di Nashville e intitolata”Human Epidemiology and Response to Sars-Cov2(Heros)”, che ha arruolato 6.000 piccoli americani con le loro 2.000 famiglie. L’indagine vuole stabilire la percentuale d’infezione tra i bambini, quella degli asintomatici e se i piccoli che soffrono di forme di allergia o di asma sono meno propensi a sviluppare la malattia in forma grave per una presenza minore dei recettori ACE2 nelle loro vie respiratorie. Lo studio verrà condotto totalmente a distanza. Ogni due settimane un familiare farà un tampone ai bambini e ad ogni altro membro della famiglia e invierà i campioni ai laboratori.
Si compilerà, inoltre, un questionario in cui si elencheranno i sintomi, le modalità di distanziamento sociale e le attività fuori casa. Infine, quando sarà individuato un test appropriato, verranno raccolti anche campioni di sangue ogni 2, 18 e 24 settimane per lo screening degli anticorpi.In linea generale, si può affermare che gli studi finora eseguiti sono limitati nei numeri e più o meno discordanti nei risultati. Spesso vengono contestati i metodi d’indagine e si attende ancora una revisione tra pari dei risultati che non sono stati ancora ricontrollati e che, di conseguenza, non possono essere pubblicati. L’indagine americana su larga scala dovrebbe fare un po’ di chiarezza. Purtroppo nelle ultime settimane, sia negli Stati Uniti, che nei Paesi europei come Regno Unito, Spagna, Portogallo, Francia e Italia, si è registrato un aumento di casi di bambini ricoverati in terapia intensiva a causa di rare sindromi infiammatorie multisistemiche, causate da una violenta risposta immunitaria e sovrapponibili alla sindrome di Kawasaki, ovvero una rara un’infiammazione dei vasi sanguigni che colpisce prevalentemente i bambini di età inferiore ai 5 anni.
In altri casi si sono verificate sindromi da shock tossico o altre manifestazioni, tra cui disturbi gastrointestinali e infiammazioni cardiache. La preoccupazione è che questo aumento di casi possa essere una conseguenza dell’infezione da Covid-19, anche perché si è riscontrato nelle zone maggiormente colpite dalla pandemia: almeno una ventina di casi si sono manifestati nella provincia di Bergamo, anche in bambini di età superiore ai 5 anni, dove solitamente se ne contano al massimo una decina all’anno. Alcuni erano positivi al virus, altri no, ma forse lo erano stati precedentemente. La correlazione tra coronavirus e sindrome di Kawasaki è ancora da dimostrare e, nel caso ci fosse, confermerebbe che la vasculite sarebbe una reazione dell’organismo all’agente infettivo. In questo clima di totale incertezza e di infinite e contrastanti teorie sul nemico invisibile, possiamo dire con certezza che i bambini non sono immuni al virus come si era inizialmente ipotizzato. Raramente si verificano complicanze respiratorie e, rispetto alla popolazione adulta, sviluppano delle forme meno aggressive.
In attesa di risultati certi dalle ricerche che sono tuttora in corso, la migliore forma per proteggere i nostri bambini è quella di adottare le stesse misure di prevenzione e i dispositivi di sicurezza degli adulti, come ad esempio l’uso delle mascherine che in Italia, con il decreto del 26 aprile, sono diventate obbligatorie per i bambini sopra i 6 anni. La società italiana di pediatria Sip consiglia dai 3 ai 6 anni una mascherina con stabilità di tenuta, con una componente elastica che permetta l’adesione al volto, realizzate in materiale antiallergico e antisoffocamento, oltre ad una corretta igiene delle mani e al distanziamento di un metro da altri bambini o adulti che non appartengono allo stesso nucleo familiare.