Il presunto assassino l’avrebbe avvelenata lentamente forse per cinque lunghi mesi durante i quali la vittima diceva di non sentirsi bene. Se qualcuno se ne fosse accorto mamma e figlio avrebbero potuto avere un destino diverso?
SENAGO (Milano) – Ritorna in auge l’ipotesi accusatoria del delitto premeditato nella morte di Giulia Tramontano e del bimbo che teneva in grembo. La donna, 29 anni, uccisa con 37 coltellate dal compagno trentenne Alessandro Impagnatiello, il 27 maggio scorso nel salone della loro abitazione di Senago, sarebbe stata avvelenata, e con lei il nascituro, con il bromadiolone, un potente rodenticida anticoagulante. La somministrazione del micidiale composto chimico sarebbe avvenuta per ingestione di piccole dosi che il presunto assassino avrebbe dispensato alla vittima ed al suo figlioletto sin dallo scorso dicembre con l’intenzione, evidentemente, di portare a morte entrambi senza destare sospetti.
Gli effetti sull’uomo sono micidiali. Si può morire anche per una semplice caduta, per una botta su un braccio o anche meno. Il veleno, di contro, non porta sonnolenza né stanchezza ma è un potentissimo anticoagulante, di libera vendita, che in poco tempo e in dosi massicce, danneggia le piastrine dunque il sangue diventa fluidissimo. Basta una piccola emorragia per andarsene al Creatore. E questo Impagnatiello lo sapeva bene, perché aveva studiato gli effetti del veleno in rete dove poi l’aveva acquistato sotto falso nome. Il veleno per topi, in congrue quantità, era stato rilevato durante l’autopsia della vittima e del bimbo mai nato sia nel sangue che nei capelli ed altri tessuti.
Anzi negli ultimi tempi, e sino a qualche giorno prima dell’omicidio, il presunto assassino avrebbe rincarato le dosi di veleno tanto che Giulia, che non si sentiva bene, lo avrebbe confessato ad una sua amica tramite chat:
“Mi sento una pezza – scriveva la vittima – ho troppo bruciore di stomaco. Lo stomaco mi uccide…Mi sento drogata”. Infatti dopo mesi di somministrazione di bromadiolone il corpo iniziava a dare le prime avvisaglie che poi sono culminate nella copiosa emorragia che avrebbe portato a morte la povera Giulia e suo figlio a seguito dei fendenti inferti dal barman assassino. A detta dei medici legali, infatti, la donna sarebbe deceduta per le ferite da arma da taglio, prevalentemente inferte nella zona del collo e dell’arteria succlavia. Tutte presentavano “una massima infiltrazione emorragica di significato certamente vitale”.
Segno evidente che la donna era sopravvissuta ad ogni coltellata, era viva sino all’ultimo fendente ma destinata a morire, com’è poi accaduto, se non soccorsa immediatamente. Le aggravanti della premeditazione e della crudeltà, che erano state contestate dalla Procura milanese ed escluse dal Gip nell’ordinanza di custodia cautelare, alla luce dei nuovi fatti, sembrano prendere consistenza. Tant’è che il Pm Alessia Menegazzo e l’aggiunto Letizia Mannella, a seguito dell’informativa della Squadra omicidi del Nucleo investigativo dei carabinieri di Moscova, hanno inserito nel puzzle le tessere mancanti relative al piano omicidiario messo a punto dal reo confesso Alessandro Impagnatiello.
Dunque è molto probabile che con queste due aggravanti si potrebbe arrivare ad un rinvio a giudizio pesantissimo. E che potrebbe spedire il barista dell’Armani Café di via Manzoni direttamente all’ergastolo. Ma c’è di più. Durante il primo sopralluogo in casa dell’indagato, quando Impagnatiello aveva denunciato la scomparsa di Giulia, i carabinieri di Senago avevano sequestrato nello zaino del barman due esche di veleno per topi. L’uomo, a domanda dei militari, aveva risposto che gli sarebbero servite per “derattizzare” uno stanzino del bar dove lavorava perché invaso dai roditori.
Giustificazione poi rivelatasi falsa a detta degli stessi colleghi dell’indagato. Su queste risultanze, oltre ad altri particolari interessanti, i carabinieri, diretti dal colonnello Antonio Coppola, avevano già ipotizzato che in realtà quello di Senago non poteva essere un omicidio d’impeto, come Impagnatiello aveva sostenuto nella sua confessione, ma un’azione premeditata. Un altro dubbio, però, rimane: Giulia Tramontano, incinta di 7 mesi, non si era mai sottoposta ad analisi cliniche del sangue? Nessuno le avrebbe riscontrato una marcata “scoagulazione”? Atteso anche che il supposto omicida avrebbe iniziato ad avvelenare Giulia dal dicembre scorso, ovvero cinque mesi prima della tragedia, evitando di sciogliere l’anticoagulante in bevande calde che ne avrebbero inficiato l’efficacia. Se qualcuno se ne fosse accorto Giulia si sarebbe potuta salvare?