La ragazza ha dovuto lasciare il paese della Piana di Gioia Tauro dove viveva e la famiglia affronta ritorsioni quotidiane: “Abbandonati anche da sindaco e parroco”.
Piana di Gioia Tauro (Reggio Calabria) – “Mia figlia deve marcire in galera, dicono. Ma siamo noi a vivere una condanna”. Sono le parole affidate al Corriere della Sera dalla madre di una ragazza abusata e minacciata di morte per due anni da un gruppo di giovani, alcuni minorenni e vicini ai clan della Piana di Gioia Tauro. Martedì è arrivata la sentenza di condanna per sei violentatori della ragazza, pene dai 5 ai 13 anni con rito abbreviato. Ma intanto la vittima, che oggi ha 16 anni, è stata costretta a lasciare il paese, mentre la sua famiglia affronta ritorsioni quotidiane: gomme tagliate, insulti, minacce di morte. Un calvario che continua, nonostante la giustizia abbia fatto il suo corso.
Martedì, il tribunale di Reggio Calabria ha chiuso un capitolo di una vicenda drammatica iniziata con la denuncia della giovane a un poliziotto nel 2023. Lei e una coetanea, per due anni, erano state vittime di violenze di gruppo e intimidazioni da parte di sei giovani, alcuni legati alla criminalità locale. Le condanne, arrivate con rito abbreviato, hanno riconosciuto la gravità dei reati: stupro, minacce e associazione per delinquere. Tra i condannati c’è anche il fratello del sindaco del paese, un borgo di 2.500 anime dove tutti si conoscono e dove i clan dettano legge. Ma per la donna e suo marito la sentenza non ha portato pace. “Ci sentiamo in pericolo ogni giorno”, racconta. “Cinque volte negli ultimi mesi ci hanno tagliato le gomme dell’auto. Il giorno della sentenza, una badante legata a uno dei violentatori mi ha aggredita verbalmente fuori casa”.
Vivere a stretto contatto con i familiari dei condannati è un’agonia. “Esco di casa e mi insultano, mi minacciano. Uno ha detto che mi accoltellerà”, racconta la donna nell’intervista. La figlia, trasferita altrove per sicurezza, torna solo un’ora al giorno. “Mi sto perdendo la sua adolescenza. La notte vado nella sua stanza vuota e immagino di accarezzarla”. Anche il figlio minore, preadolescente, porta le cicatrici di questa vicenda: “La gente gli sputava per strada, tornava a casa in lacrime”. La denuncia della giovane, un atto di coraggio dopo due anni di silenzio imposto dalle minacce (“Se parli, ammazziamo tua madre”), ha scatenato una vendetta che non si placa. “Abbiamo scritto al prefetto chiedendo un appartamento lontano da qui. Nessuna risposta”, aggiunge la donna.
La solidarietà? Quasi inesistente. “Alcuni amici ci appoggiano in privato, ma hanno paura di esporsi. Qui i clan contano”, spiega. Il sindaco, pur costituendosi parte civile per il Comune, si è limitato a un neutralismo che sa di abbandono: “Non prende le mie ragioni né quelle della sua famiglia”, riferisce la madre, citando una conversazione dopo un’ennesima minaccia. Il parroco, poi, tace. “Non ha mai detto una parola. Per questo non entro più in chiesa”. In un contesto “culturalmente disagiato e intriso di criminalità”, come lo definisce lei, la famiglia si sente sola contro tutti.
La figlia ha reagito alla sentenza con durezza: “Devono marcire in galera”. Appena finirà la scuola, lascerà la Calabria per sempre, una scelta condivisa dalla madre. “Non vuole restare, e io la capisco. Qui non c’è futuro per lei”. Il trauma è ancora vivo: per mesi non ha parlato, soffocata dalla paura di perdere la madre. “Piangeva di notte, mi abbracciava senza spiegarmi. Solo la polizia mi ha aperto gli occhi”, ricorda la madre. Ora, la giovane cerca di ricostruirsi altrove, lontano da un paese che l’ha tradita.
Nessuna scusa dai violentatori o dalle loro famiglie. “Sono senza dignità, quella che hanno strappato a mia figlia”, dice la donna con amarezza. Eppure, non si piega. “Paura? No. Io cammino a testa alta”. La sua lotta non è solo per la figlia, ma per un riscatto che, in una terra ostaggio della ‘ndrangheta, sembra ancora lontano. La sentenza è un primo passo, ma per questa famiglia la giustizia non ha ancora portato pace.