Figli tolti, figli lasciati: la tutela dei minori a doppio binario

Dalla famiglia nel bosco ai casi di Muggia e Lecce, passando per le baraccopoli: decisioni opposte, stesso obiettivo (dichiarato). Ma lo Stato protegge davvero tutti i bambini allo stesso modo?

Tre bambini portati via da una casa nel bosco perché giudicata “inidonea”. Altri bambini che continuano a vivere in roulotte fatiscenti senza che nessuno intervenga. E poi i casi estremi, in cui i minori sono stati lasciati a genitori segnalati come fragili o pericolosi, fino all’esito più tragico: la morte.

Non sono storie isolate. Sono tessere di un mosaico che racconta una tutela dei minori che appare sempre più disomogenea, oscillante tra interventismo drastico e prudenza paralizzante.

Il caso simbolo arriva dall’Abruzzo, a Palmoli, in provincia di Chieti. Tre minori, una bambina di otto anni e due gemelli di sei, sono stati allontanati dal casolare in cui vivevano con i genitori. Niente elettricità, acqua prelevata da un pozzo, servizi igienici esterni, riscaldamento a legna, isolamento totale. Il Tribunale per i minorenni dell’Aquila ha sospeso la responsabilità genitoriale, trasferendo i bambini in una comunità protetta insieme alla madre, lasciando il padre nella casa colonica.

I genitori della casa nel bosco

Le motivazioni parlano di condizioni igienico-sanitarie non adeguate e di un percorso educativo giudicato insufficiente, dato che i bambini non frequentavano la scuola ma seguivano un’educazione parentale informale. Fin qui i fatti. Poi iniziano le domande.

Ci sono in Italia decine di “campi attrezzati” dove da anni famiglie intere vivono in container o roulotte, con allacci provvisori, scarichi precari, promiscuità, incendi frequenti, rifiuti accumulati, ratto di scolarizzazione altissimi e accesso discontinuo ai servizi sanitari. Su queste realtà, denunciate periodicamente da associazioni e persino da relazioni istituzionali, lo Stato spesso interviene non con l’allontanamento dei minori, ma con progetti di “accompagnamento”, mediazione culturale, tavoli interistituzionali, percorsi lunghi e lenti.

Il campo rom di Vigevano

Una scelta legittima, se è uguale per tutti. Ma che diventa problema quando a pochi chilometri di distanza per situazioni abitative paragonabili si scelgono soluzioni opposte.

Non è una questione etnica, né uno scontro tra poveri. È una questione di coerenza. Se il principio guida è il “superiore interesse del minore”, allora quel principio dovrebbe valere ovunque, senza paura, senza calcoli, senza doppie letture.

I dubbi diventano ancora più pesanti se si osservano i casi di Muggia e Lecce.

A Muggia, sul confine con la Slovenia, Giovanni Trame, 9 anni, è stato ucciso dalla madre Olena Stasiuk pochi giorni dopo che il Tribunale aveva autorizzato incontri non protetti. Una decisione presa sulla base di perizie e relazioni che parlavano di “progressi” nella donna, nonostante le ripetute segnalazioni del padre e le parole dello stesso bambino, che aveva espresso disagio all’idea di restare solo con la madre e il desiderio di mantenere la presenza dell’educatrice. La giustizia ha scelto di fidarsi. Il risultato è stato irreversibile.

A Lecce, il caso di Elia Perrone racconta una storia simile: riaffidato alla madre, nonostante percorsi di recupero solo parzialmente verificati, controlli prescritti ma mai davvero vigilati. La donna avrebbe dovuto seguire corsi di genitorialità che non risultano essere stati completati. Anche qui, lo Stato ha scelto di aspettare. E il prezzo più caro lo ha pagato un bambino.

Tre scenari, tre approcci diversi: severità assoluta, prudenza estrema, fiducia cieca. Il filo conduttore è uno solo: a pagare non sono mai le istituzioni ma i minori.

Il sistema continua a ripetere che ogni decisione viene presa “caso per caso”. Formalmente è vero. Ma nella pratica emerge una tutela a doppio binario: più rigida dove l’intervento è socialmente semplice, più timida dove l’intervento potrebbe scatenare polemiche, più indulgente dove si rischiano ricorsi, esposti, proteste organizzate.

Centinaia di bambini vivono in condizioni di enorme precarietà nei campi rom di Roma

Il sospetto, difficile da scrollarsi di dosso, è che non sempre prevalga il diritto del bambino, ma la gestione del rischio per l’amministrazione: dove è più facile agire, si agisce; dove è più complesso, si rinvia.

Non è un invito a togliere figli a raffica. È una richiesta di coerenza. Se vivere senza luce e senza bagno giustifica l’allontanamento immediato, allora il criterio deve valere ovunque. Se invece si ritiene che il legame familiare vada preservato anche in condizioni difficili, allora lo si faccia sempre, non solo quando conviene.

Oggi l’Italia si scopre un Paese capace di intervenire con ferocia in alcuni casi e di voltarsi dall’altra parte in altri. E a ricordarcelo non sono le sentenze, ma i bambini diventati pratiche, fascicoli, numeri di protocollo e a volte – come nei casi di Muggia e Lecce – nomi da scrivere dopo una tragedia.