La situazione dei pensionati liberi professionisti è un affronto alla dignità. La pensione di vecchiaia è più bassa di quella sociale e del reddito di cittadinanza.
Si parlava di pensioni al bar dello Sport. Tra un caffè e un tramezzino, durante la pausa pranzo. L’argomento sembrava fatto apposta per farci andare di traverso anche l’ultimo boccone. Insomma per il vitalizio di vecchiaia di un giornalista freelance con 27 anni di contributi e 66 anni di età puoi contare su 600 euro lordi al mese. Una pacchia.
E dopo aver versato milioni di lire prima e poi decine e decine di migliaia di euro. A conti fatti meglio la pensione sociale oppure il vecchio reddito di cittadinanza, visto che entrambi vengono riconosciuti a chi non ha mai versato una lira/euro. Dunque dopo milioni di chilometri a piedi e in auto, nottate, festività sacrificate, tempo sottratto alla famiglia, qualche pericolo e paga da fame ecco che finalmente puoi riposarti da un lavoro che rimane fra le prime cause di decesso. Non c’è che dire, il giusto riconoscimento ad una vita di sacrifici. Ore e ore di attese, ore e ore di interviste, foto, servizi e lavoro di redazione per scrivere i pezzi e inviarli prima degli altri. Una vita di lavoro che dire stressante è assai riduttivo, passando dall’analogico al digitale.
Sembrava un privilegio invece è una iattura. E adesso che si fa? Prima avremmo scritto un pezzo sulle pensioni miserabili dei liberi professionisti dell’editoria (ma anche di altri comparti a ben vedere) ma oggi che siamo protagonisti chi scriverà per noi? E a che servirebbe? Sempre 600 euro lordi al mese, nè un euro di più. A saperlo prima col cavolo che versavi i contributi per poi vederti in mano un pugno di mosche mentre c’è gente che non fa un cacchio da mane a sera e vive col sussidio dello Stato pur potendo lavorare. Ma chi ci ha ridotti cosi? Come si campa con questi quattro soldi che a stento servono solo per pagare l’affitto? Ma non avevano detto che c’era stato l’aumento? Di quanto? Di venti centesimi netti al mese?
Niente da fare, noi giornalai, pennivendoli, scribacchini o come caspita ci chiamano, sempre in senso dispregiativo, siamo destinati a lavorare sino a morte perchè per noi non c’è quiescenza. Non c’è speranza. Non c’è futuro per una professione nella quale ti salvi solo se diventi famoso. Ma se rimani nell’ombra a fare il tuo dovere lontano dai riflettori sei fottuto. Altro che canna del gas, e sarebbe già una soluzione. Potrai vivere di Caritas e spesa solidale, con l’umiliazione a farti compagnia. Non ti è permesso altro. E poi parlano di dignità, roba da non credere. E la chiamano previdenza…