Le file sotto gli ingressi delle banche dei pegni, delle finanziarie e negli antri degli strozzini non si contano. Piccoli imprenditori, artigiani ma anche impiegati e professionisti in ambasce economiche cercano denaro laddove possono racimolarne. Pochi, maledetti e subito.
Milano – Lo chiamiamo Giuseppe tanto è un nome di comodo. La paura c’è sempre, anche dopo tanti anni. Aveva fatto tutti i mestieri da quando si era trasferito a Milano dalla sua Puglia, nel 1950. Tante speranze in parte trasformate in soddisfazioni. Poi con i sudati risparmi il sogno si era avverato: una piccola azienda tutta sua nel ramo degli infissi. Giuseppe il titolare, la moglie in ufficio, il figlio con due operai in officina. Anni d’oro quelli del boom economico. Nel capoluogo lombardo faceva la fame solo chi non aveva voglia di lavorare ma bastava farsi il cosiddetto “mazzo” per riuscire a mettere su ditta e famiglia. Gli affari andavano a gonfie vele per Giuseppe. Gli operai da due erano diventati dieci. Dalla casa popolare di Quarto Oggiaro Giuseppe & Company si erano trasferiti in un appartamento di quattro vani più servizi in viale Zara, comprato in contanti. Con i risparmi di 30 anni di lavoro, faticati lira per lira. Finalmente una vita dignitosa e una Fiat 124 azzurra per andare al mare, in Liguria, da un amico artigiano che aveva due stanze a Cogoleto. D’estate una pacchia.
Una vita che nel Salento di quegli anni potevano soltanto sognarla. Insomma tutto tranquillo sino al 1990 e dopo quando la concorrenza aveva dimezzato i profitti ulteriormente ridotti dalla successiva crisi economica. Poi una leggera risalita, nel 2000, ma con l’avvento dell’euro Giuseppe aveva dovuto licenziare i dieci dipendenti e tornare in officina a lavorare col figlio. Poi un lento ma inesorabile declino sino al fallimento. Debiti su debiti con le banche che sembravano impossibili da estinguere. Sino alla più tragica delle decisioni: vendere casa per fare cassa e pagare le ultime passività e gli interessi ormai lievitati a chissà quanto. Mentre le commesse si andavano diradando e con una decina di clienti insolventi la situazione economica dell’azienda era ormai precipitata. Una volta estinte le obbligazioni con gli istituti di credito rimanevano quelle con i fornitori che, per anni, avevano sperato che Giuseppe potesse farcela. Che quell’uomo testardo come un mulo potesse uscire da quella stramaledetta situazione di stallo che lo stava rovinando giorno dopo giorno. Niente da fare: Giuseppe chiude la ditta e cerca di salvare il salvabile. Gli rimane un piccolo capannone, i macchinari e un furgone. Nient’altro. Giuseppe ed il figlio non si arrendono ma senza soldi non si canta messa. Le banche gli voltano le spalle, le istituzioni rinviano e dilazionano le sue decine e decine di richieste di sostegno mentre una burocrazia da far paura gioca come fa il gatto col topo. La produzione di serramenti necessitava dell’acquisto di materia prima ma i fornitori non facevano più credito a Giuseppe che, da galantuomo era diventato cattivo pagatore dunque inaffidabile. Non c’era Cristo che lo volesse aiutare poi un amico, tutt’altro che fidato, gli diede il peggiore dei consigli: vai da Gaetano a nome mio, vedrai è un brav’uomo, ti aiuterà.
Gaetano, tutt’altro che un brav’uomo, nel giro di tre giorni era riuscito a recuperare centomila euro in contanti che per Giuseppe sembravano vera manna dal cielo. Di contro Giuseppe si impegnava a restituire in tre anni quattro volte la somma erogata e come garanzia avrebbe ceduto capannone e macchinari a quel brav’uomo di Gaetano che sorrideva fregandosi le mani. La vicenda è finita come ne sono finite mille altre. Giuseppe non è riuscito a rimettersi in piedi e l’usuraio, dopo tre anni, aveva preteso la restituzione di 400mila euro oltre alla cessione di capannone e macchinari, vecchio furgone compreso. Dopo le minacce e le intimidazioni Giuseppe decideva di denunciare gli strozzini, per altro legati con la ‘ndrangheta locale. I carabinieri non perdevano tempo e riuscivano ad acciuffare il buon Gaetano e i suoi sodali mettendo le mani su un patrimonio di decine di milioni di euro ricavati dal sangue di chissà quanti poveri disgraziati come Giuseppe. Il figlio del fabbro pugliese ha poi trovato un posto fisso presso una ditta metallurgica e sostiene economicamente i due genitori ormai anziani che vivono di stenti.
La legge 108 del 1996 sul fondo di prevenzione delle vittime di pizzo e usura sembra una chimera cosi anche tutte le altre norme a sostegno di imprenditori ed ex imprenditori strozzati dalla criminalità organizzata. Giuseppe piange lacrime amare:”… Se non fosse per mio figlio non so come sarebbe finita – aggiunge l’uomo con la testa bassa – sono stato sempre onesto e ne ho pagato lo scotto. Stiamo meglio adesso con la pandemia. Almeno si sono ricordati di me e di mia moglie con la spesa e le medicine. Tanto erano anni che non uscivamo di casa e poi, per andare dove? Non abbiamo più amici e quando qualcuno si ricorda la mia storia, si gira dall’altra parte come se la carogna fossi io… Mi hanno strappato tutto ciò che avevo costruito e diviso con i miei operai. I sacrifici di una vita polverizzati in un momento. Ma quale solidarietà. Sai quanto me ne frega del virus?..”. Come dargli torto.