Per la Corte Costituzionale vale la presunzione di non colpevolezza e la funzione rieducativa della pena. Il caso sollevato a Spoleto.
Roma – È incostituzionale la preclusione biennale alla concessione di permessi premio a un detenuto che sia stato imputato o condannato per un reato commesso durante l’esecuzione della pena. Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza numero 24, depositata oggi, con la quale è stata ritenuta fondata una questione sollevata dal magistrato di sorveglianza di Spoleto. Un detenuto, in carcere dal 2017, aveva chiesto di essere ammesso a un permesso premio. La sua richiesta era però inammissibile perché l’articolo 30-ter, quinto comma, della legge sull’ordinamento penitenziario vietava per 2 anni di concedere permessi premio a detenuti che siano stati condannati o siano imputati per un reato commesso durante l’esecuzione della pena. Nel caso concreto, il richiedente era stato rinviato a giudizio per avere tentato, un anno prima, di introdurre droga nel carcere per un altro detenuto.
Il magistrato di sorveglianza ha tuttavia rimesso gli atti alla Corte costituzionale, ritenendo la preclusione stabilita dalla legge incompatibile, tra l’altro, con la presunzione di non colpevolezza e la funzione rieducativa della pena. La Consulta ha anzitutto osservato che un’analoga questione era stata ritenuta non fondata in una sentenza del 1997, che peraltro aveva invitato il legislatore a modificare la norma per renderla più conforme alla funzione rieducativa della pena. “Rilevato che il tendenziale rispetto dei precedenti costituisce una condizione essenziale dell’autorevolezza delle proprie decisioni”, la Corte ha tuttavia ricordato “come ci possano essere ragioni cogenti che rendano non più sostenibili le decisioni precedentemente adottate, ad esempio quando esse non siano più coerenti con il successivo sviluppo della giurisprudenza costituzionale o di quella delle Corti europee”.
Gli effetti della “presunzione di non colpevolezza, sostiene la Corte Costituzionale, “non si esauriscono, come ancora si riteneva alcuni decenni fa, all’interno del procedimento penale relativo alla responsabilità per il reato addebitato all’imputato, ma implicano un generale divieto di considerare l’imputato colpevole del fatto anche in qualsiasi altro procedimento giudiziario, sino a che il reato non sia definitivamente accertato. Conseguentemente, una norma che vieta in via assoluta al magistrato di sorveglianza di concedere un permesso premio, per il solo fatto che il richiedente sia stato imputato di un reato da parte del pubblico ministero, agli effetti pratici vincola il giudice a ‘presumere colpevole’ l’imputato”.
Una disposizione così concepita, ha concluso la Corte, “sottrae al magistrato di sorveglianza ogni margine di autonomo apprezzamento sulla reale consistenza della notitia criminis e, soprattutto, gli impedisce di ascoltare l’imputato e il suo difensore, e di tenere conto delle loro deduzioni circa l’effettiva commissione del fatto, con conseguente, indiretto, vulnus allo stesso diritto di difesa dell’interessato, legato a doppio filo alla presunzione di innocenza”.