L’occidentalizzazione forzata del cuore della metropoli produce la necessità di ampliare quanto più possibile il mercato ed è così che nella dimensione turistica subentra anche il turismo di Guerra.
A quasi un quarto di secolo dalla fine della guerra in Bosnia ed Erzegovina Sarajevo si mostra come una città ricca di sfaccettature, cangiante a seconda della prospettiva d’osservazione. Il lento processo di ricostruzione nazionale ha avuto il suo epicentro proprio nella capitale bosniaca: tramite vari accordi bilaterali; fondi provenienti dall’Unione Europea; dai Paesi Arabi; dalle varie multinazionali investitrici sul territorio, il centro della città sembra proiettato verso il futuro, desideroso di scordare il lungo periodo di difficoltà e di totale privazione. Proprio durante l’assedio Cetnico alla capitale – il più lungo che una città abbia mai dovuto sopportare in età contemporanea – uno dei mezzi più efficaci di resistenza della popolazione passava per l’attività culturale, costantemente in fermento e mai sopita dalle granate di Ratko Mladić. Tra le innumerevoli esperienze di resistenza culturale durante l’assedio il teatro rappresentava l’attività più prolifera, il cuore pulsante di tale tipo di resistenza.
Uno degli spettacoli più significativi andato in scena durante l’assedio fu il rifacimento della celebre opera di Samul Beckett Aspettando Godot, regia di Haris Pašović e di Suada Kapić. Tra le varie interpretazioni che la popolazione sarajevese forniva di questa opera spiccava per importanza la metafora di Godot come la NATO o l’Unione Europea. Un Godot, dunque, che avrebbe dovuto sollevare le sorti del popolo bosniaco ed impedire che i Serbi Cetnici avessero la strada spianata per commettere torture, stupri e genocidi – come giustificare le inadempienze dei Paesi “più sviluppati” davanti ai fatti di Srebrenica?
A circa 25 anni dai trattati di Dayton Godot è finalmente arrivato, ma al contrario delle tante aspettative si è presentato indossando la sua maschera più terrificante: quella del capitalismo. Se le contraddizioni tra i piccoli centri urbani e le principali città della nazione sono evidenti a chiunque percorra le strade e le superstrade bosniache, anche all’interno di Sarajevo la contrapposizione tra centro e periferia lascia lo spazio a varie recriminazioni. Se a determinate latitudini della capitale i fori dei proiettili presenti ancora sulla maggior parte dei palazzi ricordano costantemente alla popolazione l’indifferenza internazionale, la sofferenza locale e l’impotenza militare difronte a un nemico nettamente più forte e maggiormente attrezzato; in altri luoghi diventano oggetto di commercio, souvenir e “simpatiche” cartoline da poter riportare a casa a termine di un viaggio “esotico”. Per le piccole e arruffate vie del centro, un autentico gioiellino in chiaro stile ottomano, i negozi offrono alla mercanzia dei turisti una variegata gamma di merci: da Džezva e Fildžan utilizzati per preparare il caffè in autentico stile bosniaco, alle autentiche spille dell’ex esercito Jugoslavo, fino ai calzettoni in lana comunemente utilizzati nei Balcani. Oltre ai comuni oggetti turistici emergono dalle vetrine e dai banchetti dei negozi autentici bossoli sparati dai Cetnici contro la città; penne a forma di pistola; fotografie raffiguranti una Sarajevo bombardata distrutta e altre che ritraggono l’esercito assediante intento in angherie contro la popolazione locale. In alcuni bar si possono notare finiti buchi sui muri simili ai reali ancora disseminati in molti palazzi della città, mentre in altri ristoranti le tovagliette utilizzate per evitare che si sporchino i tavoli alludono al periodo dell’assedio, e in alcuni casi la comunicazione risulta abbastanza macabra. L’identità della Bosnia a certe latitudini sembra guardare con piacere ai voleri del Godot tanto aspettato, producendo un inevitabile vortice di spettacolarizzazione della guerra che inevitabilmente conduce il turista verso la rimozione della comprensione del conflitto. I brand delle maggiori multinazionali cominciano ad affollare le vie del centro, mentre gli alberghi extralusso diventano un attestato di sicurezza per i turisti.
Gli Stati che hanno investito nella ricostruzione ora pretendono un ritorno economico, ed è così che le pubblicità della Coca Cola – per citare un delle maggiori realtà presenti a Sarajevo – prima ricoprono i palazzi ancora distrutti dai bombardamenti e poi irrompono in maniera tanto prepotente nella vita della popolazione da modificarne usi e costumi. La stessa ricostruzione della Biblioteca Nazionale di Sarajevo ha seguito il medesimo percorso: prima distrutta dai bombardamenti Cetnici, poi ricostruita tramite i finanziamenti dell’Austria e dell’Unione Europea, e in fine privatizzata ed estraniata della fruibilità degli studenti della città. L’occidentalizzazione forzata del centro della città produce la necessità di ampliare quanto più possibile il mercato, ed è così che nella dimensione turistica subentra anche il Turismo di Guerra. Le ragioni del confitto vengono totalmente estraniate del prodotto per diventare freddi oggetti con cui poi riempire gli spazi vuoti dentro la propria casa al termine del viaggio. La Bosnia Erzegovina è una nazione che corre con due velocità differenti. Le festose e sfarzose vie del contro cercano di coprire gli ancora innumerevoli danni recati dal conflitto: dalla dilagante disoccupazione e la conseguenziale emigrazione, fino alla precarietà dei mezzi pubblici – non è raro notare tram fermi anche per 25 minuti per improvvisi cali d’elettricità che impediscono ai mezzi il proseguimento della corsa. Godot, dunque, non solo è arrivato con un immotivato ritardo, ma ha anche mostrato il suo reale aspetto: profittatore di ciò che rimane di essa. Bosnia Erzegovina benvenuta nel libero mercato.