Dalla “cricca” della Protezione Civile al caso Claps, due storie che raccontano come il potere e la giustizia si siano spesso incrociati senza mai toccarsi davvero.
Firenze/Potenza – Era il febbraio del 2010 quando le prime pagine dei giornali iniziarono a riempirsi di nomi che fino ad allora erano rimasti dietro le quinte del potere. La Procura di Firenze, guidata dal gip Rosario Lupo, rese pubblici i risultati di mesi di intercettazioni e accertamenti che descrivevano un sistema di relazioni clientelari al centro della macchina dei grandi appalti pubblici.
Il meccanismo era tanto efficiente quanto perverso: una rete di imprenditori, tecnici e dirigenti che, sfruttando la gestione straordinaria delle opere per eventi nazionali, avrebbe pilotato gli affidamenti a vantaggio di pochi. Il cuore del sistema ruotava attorno a Diego Anemone, giovane imprenditore romano, e ad Angelo Balducci, presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici, già noto per la sua lunga carriera nell’amministrazione statale.

Anemone, con un’azienda di modeste dimensioni, riuscì a conquistare un ruolo di primo piano nella realizzazione di strutture pubbliche in tutta Italia: dalla Scuola Marescialli dei Carabinieri di Firenze agli impianti sportivi dei Mondiali di nuoto del 2009, fino ai lavori per il G8 della Maddalena e per le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia.
Dietro quella crescita vertiginosa si sarebbe nascosta una rete di favori, tra cui ristrutturazioni gratuite e incarichi “di fiducia”, che alimentava un sistema di relazioni più basato sull’appartenenza che sulla trasparenza. Le carte giudiziarie parlarono di “affidamenti diretti e ingenti somme di denaro gestite con scarsa tracciabilità”.
A emergere era l’immagine di uno Stato che, in nome dell’urgenza e della rapidità, aveva sospeso molte delle regole di concorrenza e controllo. “L’Italia delle emergenze” – così la definì la stampa – diventava terreno fertile per la corruzione e per la nascita di un potere parallelo, capace di decidere chi dovesse lavorare e chi restasse fuori.
Il processo, conclusosi nel 2018, riconobbe le responsabilità principali: Balducci e Anemone furono condannati per corruzione e associazione a delinquere, mentre Guido Bertolaso, accusato di aver favorito alcune procedure, venne assolto.

Fu la fine di una stagione e l’inizio di una nuova consapevolezza: la corruzione non era solo una deviazione, ma un metodo di governo consolidato.
Il caso Claps: la verità che venne dal silenzio
Nello stesso anno, nel cuore della Basilicata, un’altra inchiesta faceva riemergere dal buio una storia che sembrava ormai dimenticata. Era il 17 marzo 2010 quando alcuni operai, impegnati nei lavori di manutenzione, scoprirono nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità di Potenza il corpo di Elisa Claps, scomparsa nel 1993 all’età di 16 anni.
Per diciassette anni la famiglia della ragazza aveva chiesto di riaprire le indagini, denunciando omissioni, errori e reticenze. Elisa era stata vista l’ultima volta proprio in quella chiesa, dove aveva un appuntamento con Danilo Restivo, un giovane del posto già noto per la sua condotta ambigua. Nonostante le numerose segnalazioni, nessuno aveva mai autorizzato una perquisizione accurata dell’edificio religioso.
Quando il cadavere fu ritrovato, la verità emerse in modo drammatico: Restivo era responsabile dell’omicidio e, pochi anni dopo, verrà arrestato anche in Inghilterra per aver ucciso Heather Barnett, una donna di 48 anni, sua vicina di casa.

Nel 2014 la Suprema Corte confermò per l’uomo la condanna a trent’anni di carcere. Le perizie dimostrarono che Elisa era stata uccisa lo stesso giorno della scomparsa e che il suo corpo non era mai stato spostato da quel luogo.
La vicenda Claps divenne il simbolo di un’Italia ferita dall’indifferenza e dalla paura di indagare fino in fondo.
La voce del fratello, Gildo Claps, trasformò il dolore in una battaglia civile per la trasparenza delle indagini e per il diritto alla verità delle famiglie delle vittime. Il suo impegno contribuì alla nascita di nuove norme sul coordinamento tra forze dell’ordine e magistratura nei casi di scomparsa.
Durante le indagini sugli appalti fiorentini, tra i documenti sequestrati all’imprenditore Anemone, emerse una nota in cui compariva la parola “Claps” accanto al nome della città di Potenza. L’indiscrezione finì subito sui giornali, alimentando sospetti e teorie di collegamenti oscuri tra la Basilicata e i poteri romani.
In realtà, gli accertamenti della magistratura esclusero qualsiasi connessione concreta tra Anemone e la vicenda Claps. L’appunto, come confermarono successivamente le indagini, non aveva alcun valore investigativo e non era riconducibile al caso della 16enne uccisa a Potenza. Le due inchieste rimasero dunque parallele ma indipendenti, unite solo dal contesto temporale e da un destino di verità difficili e tardi a emergere. La magistratura, pur verificando ogni pista, archiviò rapidamente ogni sospetto. Rimase però l’impressione che in Italia bastasse un dettaglio, un cognome, un appunto, per intrecciare mondi lontani e costruire teorie che rimbalzano per anni nei corridoi della cronaca.

L’inchiesta di Firenze portò ad una revisione profonda delle procedure di spesa pubblica e all’introduzione di controlli più severi sugli appalti straordinari. Il caso Claps, invece, impose una riflessione sulle carenze investigative e sull’importanza dell’ascolto delle famiglie delle vittime.
In entrambi i casi, la società civile ebbe un ruolo decisivo: giornalisti, magistrati e cittadini contribuirono a scardinare meccanismi di potere che sembravano intoccabili. Entrambe le vicende, pur diversissime, avevano un elemento comune: il tempo perduto. Tempo sprecato per inseguire poteri opachi, per ignorare segnali evidenti, per proteggere interessi o per paura di disturbare i potenti.
Guardando oggi a quegli anni, resta la sensazione che le due storie raccontino un unico grande tema: il prezzo del silenzio. Da una parte l’Italia delle tangenti e dei favori, dall’altra quella delle omissioni e delle indagini interrotte. In mezzo la consapevolezza che nessun sistema di potere è eterno e che ogni verità, per quanto scomoda, prima o poi trova la strada per emergere.

Oggi, tra faldoni giudiziari e testimonianze rimaste in sospeso, resta un filo conduttore che unisce tutti questi episodi: la persistenza di un sistema di potere che si muove all’ombra della fede e del denaro, della politica e del silenzio in cui, troppo spesso, la verità resta sepolta sotto i palazzi del potere.