Gonnella: “Il governo invece di rispondere alle tensioni con il dialogo e con gli investimenti pensa solo a introdurre nuovi reati”.
Roma – Dal suo insediamento il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha più volte parlato dell’importanza del lavoro in carcere per il reinserimento sociale delle persone detenute e per abbattere il tasso di recidiva, “ma nella pratica si sta facendo l’esatto opposto, tagliando del 50% i fondi che sono a disposizione per il pagamento delle persone detenute lavoranti in carcere”. A denunciarlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, che lamenta il taglio delle risorse nelle attività lavorative previste dietro le sbarre, già scarse. “A lavorare è solo circa il 30% delle persone detenute e la maggior parte di esse lavora alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, peraltro in molti casi già per pochi giorni o poche ore alla settimana”.
Gonnella fa notare che il “guadagno che si ottiene serve a garantire un ritorno in libertà dove si abbiano a disposizione un minimo di risorse per far fronte alle spese, comprese quelle del mantenimento che ogni persona detenuta deve versare allo Stato a fine pena. Apportare ulteriori tagli al lavoro significa lasciare le persone senza possibilità di guadagno, nella noia e nell’apatia più totale, in una condizione che produce solo ulteriore deprivazione. Così facendo non si aiutano le persone detenute a costruire possibilità diverse dal crimine una volta fuori, incidendo negativamente quindi anche sulla sicurezza”.
In una nota del provveditorato regionale del Piemonte, Liguria e Valle D’Aosta, commenta Antigone, si legge infatti come il fabbisogno rilevato per mantenere i tassi di occupazione fosse di 2 milioni di euro, mentre dal ministero della Giustizia è stato erogato meno del 50% di questo fabbisogno. Per questo, il
Prap, ha invitato le direzioni degli istituti a tagliare il numero di persone lavoranti o comunque di ridurre le ore di lavoro che le stesse svolgono. Questi tagli potranno colpire peraltro categorie specifiche di lavoratori: quelli che prestano assistenza ad altri detenuti disabili o non pienamente autosufficienti, o quelli a supporto dell’area pedagogica (bibliotecari e scrivani)”.
Tra l’altro, insorge Gonnella, “questi tagli arrivano in un momento di grandi tensioni che si respirano nelle carceri, dove le persone detenute vedono da una parte ridotte al minimo le proprie prospettive, dove vedono crescere il sovraffollamento, dove le condizioni di vita sono in costante peggioramento, con un numero di suicidi altissimo (sono già 73 quest’anno, il secondo dato più alto di sempre). Il governo, invece di rispondere a queste tensioni con il dialogo e con investimenti, pensa solo a introdurre nuovi reati, a proibire a suon di pene draconiane anche le forme di protesta non violenta e a costruire nuove carceri con un milione di euro già investito per la creazione e il mantenimento dell’ufficio del commissario all’edilizia penitenziaria”, conclude.
Un esempio recente di come il lavoro in carcere possa aiutare i detenuti a cambiare vita è quello dell’istituto milanese di Opera. Circa 10 persone hanno imparato un mestiere durante la permanenza nella struttura e hanno trovato un lavoro. Il risultato di un progetto di formazione e reinserimento avviato un anno fa in collaborazione tra Assimpredil Ance, il carcere di Opera, i sindacati, la Fondazione Don Gino Rigoldi e Umana. Il bilancio è arrivato a conclusione del primo ciclo e in concomitanza con la partenza di quello nuovo. I detenuti che hanno ottenuto il permesso di uscire e lavorare all’esterno possono partecipare a un laboratorio-scuola con 96 ore di formazione, a cui segue l’inserimento lavorativo nei cantieri o imprese che ne fanno richiesta. Sono 16 ore di corso base sulla sicurezza e a 80 ore di formazione per diventare operatore edile di base. Il primo corso si è concluso ad aprile del 2023, a cui è seguito l’inserimento nel mondo del lavoro.
“Questo progetto potrebbe essere anche un suggerimento a tante imprese che hanno carenza di personale, come occasione per rompere la diffidenza che c’è”, ha detto don Gino Rigoldi: “La cosa che apprezzo di più è la felicità e la contentezza che hanno questi uomini che escono. Anche il dire a chi fa queste cose: ‘Ho cambiato la vita delle persone, ho ridotto la recidiva’. Il lavoro è la strada migliore per cambiare la vita. Qui è successo qualcosa in più, perché è un lavoro fatto dentro un carcere, è una sorta di riabilitazione. Non si prende solo lo stipendio ma si impara a essere una persona come le altre, autonoma. Abbiamo inventato un format. Si rovesciano le parti, il datore di lavoro entra in un carcere, forma le persone e le assume veramente”.
Ma se parliamo di un simbolo del lavoro dietro le sbarre che riabilita e insegna un mestiere, tra i migliori panettoni artigianali italiani c’è quello preparato dai detenuti del carcere Due Palazzi di Padova. La pasticceria Giotto, situata all’interno della prigione, dà una seconda possibilità ai reclusi, che oltre ad essere assunti con contratti regolari, sfornano dolci di prima qualità. Lo ordinano le grandi aziende e si vende in 240 negozi, anche all’estero. Prima di arrivare sugli scaffali però, il dolce natalizio deve superare cancelli di ferro e metal detector del carcere. Tra macchinari pulitissimi e citazioni letterarie sui muri, non sembra di stare in carcere. “Quando sei qui dimentichi di essere in galera”, ha raccontato Mario, 56 anni di cui 14 passati nella pasticceria di Giotto.
E ancora, dietro ai marchi Rebibbia Fashion e MadeinJail – riunite sotto l’insegna “Codice a sbarre” – si nasconde il lavoro di oltre duecento detenuti, specializzati nella produzione di capi in pelle e magliette. Un ritorno alla vita, alla normalità. Un’occasione per dimostrare il proprio valore e per non ricadere nel baratro della criminalità. “Made in Jail!” è la griffe nata per prima, addirittura nel 1988. Ma ci sono voluti venti anni prima che qualcuno ne cogliesse le potenzialità e la portata sociale, dedicandole un punto vendita a Riccione. Sulle magliette sono stampate frasi che lanciano anche un forte messaggio sociale di monito, riportando gli articoli del codice penale.
Tutto nasce nel 2002 quando nel carcere di Vercelli prende corpo “Codice a sbarre”, un progetto che sposa moda e solidarietà, patrocinato dal ministero della Giustizia, dal Comune di Vercelli e sostenuto dal ministero del Lavoro. Lo scopo è promuovere iniziative imprenditoriali innovative legate al recupero delle donne in carcere. Inizia dunque la selezione delle detenute che diventeranno le protagoniste di “codiceasbarre” e per quattro di loro si avvia un percorso didattico sul taglio e cucito, corsi di marketing e comunicazione. Accanto a quelle detenute, assunte a tempo indeterminato, si affianca una sarta specializzata nel confezionamento di abiti da lavoro, viene allestito un laboratorio di sartoria e un ufficio e Cdsb nel 2004 diventa una vera impresa sociale. In poco tempo il marchio diventa una linea di abbigliamento i cui capi sono in vendita in ben 120 negozi italiani, target medio-alto, distribuiti dalla Age di Torino.