Aggredì brutalmente l’ex moglie, il giudice: “Ferito dall’infedeltà”

Solo 18 mesi con pena sospesa per l’uomo che colpì Lucia Regna: per i giudici fu un gesto “impulsivo” legato alla fine del matrimonio con la vittima.

Torino – Nel luglio 2022 un uomo ridusse in condizioni disperate l’ex moglie, Lucia Regna, colpendola ripetutamente al volto fino a procurarle fratture multiple e la perdita irreversibile della vista da un occhio. La decisione del tribunale di Torino ha sorpreso per la sua mitezza: diciotto mesi di reclusione con sospensione della pena, escludendo l’accusa di maltrattamenti e riconoscendo soltanto le lesioni personali.

Nelle argomentazioni che accompagnano la sentenza, il magistrato sviluppa un ragionamento centrato sulla necessità di “comprendere” le motivazioni dell’imputato. L’aggressione viene inquadrata non come un atto di pura violenza ma come l’esplosione di un “dramma personale” legato alla fine di un matrimonio che durava da vent’anni e aveva visto nascere due figli. La separazione, descritta dal giudice come “devastante”, era stata decisa autonomamente dalla donna.

In questa prospettiva, i sette interminabili minuti di botte – che si sono conclusi con il pugno devastante al volto di Lucia Regna – vengono presentati come lo “sfogo disperato” di un uomo “lacerato dal tradimento” e dalla disgregazione del suo “ambiente familiare”.

Anche gli insulti più pesanti – definizioni offensive sulla moralità e le qualità materne della donna, pronunciate davanti ai figli – trovano una giustificazione nelle motivazioni: si tratterebbe di “espressioni da contestualizzare”, manifestazione di una “frustrazione comprensibile per chiunque”.

Il tribunale ha considerato “genuine e credibili” le dichiarazioni dell’imputato durante il processo, elemento che ha pesato significativamente nella riduzione della condanna, molto al di sotto dei quattro anni e mezzo inizialmente richiesti dall’accusa.

Mentre l’aggressore rimane libero, Lucia Regna vive ancora le conseguenze del trauma subito. Il suo legale fa sapere che “la signora necessita ancora di elaborare il contenuto delle motivazioni insieme alla sua psicologa”, come riportato dalla Stampa. Ciò che la ferisce maggiormente è la sensazione di essere diventata lei stessa oggetto di sospetto: la sentenza definisce le sue dichiarazioni “da vagliare con prudenza” a causa della richiesta di risarcimento di centomila euro, avanzata dopo aver perso la vista e la possibilità di mantenere il proprio lavoro.

I due figli, che durante le udienze non hanno mai abbandonato la madre, dopo l’aggressione avevano scritto sui social: “Donne, non abbiate paura di denunciare”, mostrando la fotografia del volto tumefatto della madre. Oggi stentano a comprendere una decisione che ai loro occhi non rappresenta una vera giustizia.

L’avvocata Annalisa Baratto, che assiste la parte offesa, contesta aspramente l’impostazione della sentenza: “Una pronuncia che minimizza le violenze inflitte e umilia chi le ha patite, mentre concede benevolenza a chi le ha causate”.

Completamente diversa la reazione del difensore dell’imputato, che elogia una “decisione esemplare per precisione e aderenza ai fatti processuali”.

Resta il controsenso di un pestaggio che ha rasentato il femminicidio, trasformato in un semplice “gesto impulsivo” motivato da una sofferenza personale “degna di comprensione”. E restano le parole di Lucia, specchio di una società che sembra considerare le donne animali sacrificabili. “Perché ci dicono di denunciare se poi quello che viene dopo, da parte dello Stato, è uno schiaffo morale che fa più male delle botte? A cosa serve il Codice rosso? A niente. Io mi sono pentita di averlo denunciato. Adesso può continuare a fare del male. A me. O alla prossima”.

Facebook
Twitter
LinkedIn
WhatsApp
Email
Stampa