A Gaza la strage silenziosa dell’informazione

232 giornalisti uccisi in 18 mesi: come Israele ha trasformato il controllo dell’informazione in un’arma di guerra, isolando Gaza dal mondo e prendendo di mira sistematicamente chi documenta il conflitto.

Gaza – Il conflitto a Gaza ha riscritto le regole della guerra moderna, trasformando l’informazione in un campo di battaglia parallelo dove i giornalisti sono diventati obiettivi militari. Con 232 reporter uccisi dal 7 ottobre 2023, Gaza detiene il tragico primato di essere il conflitto più letale della storia per gli operatori dei media: più morti che nelle due guerre mondiali messe insieme, con una media di 13 giornalisti uccisi ogni mese.

Ma dietro questi numeri si cela una strategia deliberata che va oltre la semplice casualità bellica: il sistematico isolamento informativo di Gaza, l’impedimento dell’accesso ai media stranieri e il targeting mirato dei giornalisti palestinesi rappresentano un nuovo paradigma nella gestione dell’informazione durante i conflitti.

L’isolamento senza precedenti

La decisione di Israele di impedire ai giornalisti stranieri l’accesso a Gaza non ha precedenti nella storia moderna dei conflitti. Questa scelta ha creato un vuoto informativo che è stato riempito esclusivamente dai giornalisti palestinesi residenti nella striscia, trasformandoli negli unici testimoni diretti di una guerra che coinvolge oltre due milioni di persone.

“Prima del 7 ottobre 2023 erano diverse le televisioni e le troupe internazionali che operavano sulla striscia, e numerosi i fotografi professionisti palestinesi”, ricorda il documento. Oggi, questi reporter locali – molti dei quali formatisi sul campo durante il conflitto – sono diventati gli occhi del mondo su Gaza, documentando non solo gli eventi ma vivendoli in prima persona.

Nei primi mesi di invasione, le autorità israeliane hanno iniziato a ospitare i giornalisti stranieri ma secondo un protocollo rigidamente controllato: alloggio e trasporto a spese del governo, tour pianificati nelle zone vicine a Gaza secondo programmi meticolosi. “Le uniche immagini dovevano essere quelle fornite dal governo israeliano, soltanto attacchi dal punto di vista dei carri armati che invadevano i sobborghi della città e come in un video-game le esplosioni delle bombe che colpivano i bersagli.”

La resistenza dell’informazione palestinese

Nonostante l’assedio mediatico, l’ecosistema informativo palestinese ha mostrato una resilienza straordinaria. I giornalisti che da 18 mesi sono gli unici corrispondenti da Gaza hanno dovuto affrontare condizioni estreme: “Siamo stati sfollati, affamati, disidratati, senza dormire. Pronti in ogni momento a documentare le stragi e dare voce alla gente.

La radio AM a onde corte è diventata la fonte più accessibile, mentre la televisione funziona “a corrente alternata” a causa dei continui blackout. Al Jazeera resta la più seguita tra le TV satellitari panarabe, mentre Al-Aqsa, la stazione radiofonica gestita da Hamas, mantiene un pubblico fedele dai tempi della seconda Intifada.

L’agenzia di notizie Wafa, fondata nel 1972 dalla PLO, pubblica quotidianamente su YouTube video in presa diretta ripresi in strada e dal cielo con i droni, nonostante sia stata più volte presa di mira dall’esercito israeliano. Anche la Palestine TV, che ha avviato le trasmissioni a Gaza nel 1996, è stata ripetutamente attaccata: distrutta a gennaio 2002, ha visto chiudere il suo ufficio di Gerusalemme Est nel marzo 2023.

gaza
Emergenza umanitaria a Gaza

Facebook rimane una delle piattaforme più popolari, anche se gli account affiliati ai gruppi militanti vengono regolarmente bloccati. Hamas, tuttavia, mantiene i suoi canali di propaganda con operatori video embedded professionali e una gestione dei media tecnicamente avanzata.

La generazione TikTok della guerra

Una caratteristica inedita di questo conflitto è l’emergere di una nuova generazione di testimoni: giovanissimi reporter, fotografi e filmmaker che caricano i loro contenuti su TikTok, Instagram, Facebook e Telegram. Questi “citizen journalist” hanno trasformato i social media nella fonte principale dei network internazionali e delle agenzie di notizie, creando un nuovo paradigma dell’informazione di guerra.

I commenti sui post di WhatsApp e le immagini caricate su YouTube dai blogger sono diventati materiale di prima mano per i media globali, in un ribaltamento delle tradizionali gerarchie dell’informazione. Questa democratizzazione forzata dell’informazione ha però esposto questi giovani testimoni a rischi enormi: molti di loro sono finiti nel mirino delle forze israeliane.

L’intelligenza artificiale della morte

Uno degli aspetti più inquietanti del conflitto è emerso da un recente studio di Human Rights Watch sull’uso di strumenti digitali di guerra da parte dell’esercito israeliano. Tre sistemi di database potenziati dall’intelligenza artificiale stanno ridefinendo il modo in cui vengono selezionati gli obiettivi.

“Gospel” (il Vangelo) utilizza algoritmi per elaborare dati di sorveglianza e generare elenchi di obiettivi da colpire, identificando categorie di bersagli militari che includono obiettivi sotterranei come i tunnel e le case dei familiari di sospetti militanti.

“Lavender” usa l’apprendimento automatico per assegnare ai residenti di Gaza un punteggio numerico sulla probabilità che una persona sia membro di un gruppo armato. Gli ufficiali militari israeliani impostano la soglia oltre la quale un individuo può essere contrassegnato come bersaglio, analizzando abitudini e connessioni sociali.

“Where’s Daddy?” (dov’è papà) determina quando un obiettivo si trova in un luogo specifico – spesso la sua presunta casa di famiglia – utilizzando triangolazione delle torri cellulari e altri dati di sorveglianza per fornire una visione in tempo reale dei movimenti dei residenti di Gaza, dove esistono più di un milione di contratti telefonici.

L’esercito israeliano sta usando dati incompleti, calcoli imperfetti e strumenti non adatti allo scopo per aiutare a prendere decisioni sulla vita e sulla morte a Gaza, che potrebbero aumentare il danno civile”, ha affermato Zach Campbell, ricercatore senior di Human Rights Watch. “I problemi nella progettazione e nell’uso di questi strumenti, invece di ridurre al minimo il danno civile, potrebbero determinare l’uccisione illegale dei civili.”

I volti della tragedia: le vittime del 2025

Il 2025 si è aperto con una nuova ondata di violenza contro i giornalisti. Dopo 36 giorni di tregua dal 15 gennaio, nella notte del 20 marzo l’esercito israeliano ha bombardato senza preavviso Gaza Nord, Gaza City, Deir al-Balah, Khan Younis e Rafah, uccidendo più di 400 persone di cui 174 bambini. Il giorno successivo, un altro bombardamento ha fatto altre 200 vittime civili.

Hossam Shabat, giornalista di Al Jazeera Mubasher, è stato ucciso il 24 marzo nella sua auto a Beit Lahiya. Le sue ultime parole risuonano come un testamento: “Negli ultimi 18 mesi ho documentato gli orrori nel nord di Gaza minuto per minuto, determinato a mostrare al mondo la verità che cercavano di seppellire. Ho dedicato ogni momento della mia vita alla mia gente. Ho dormito sui marciapiedi, nelle scuole, nelle tende, ovunque potessi. Ogni giorno era una lotta per la sopravvivenza. Ho sofferto la fame per mesi, eppure non ho mai lasciato la mia gente. Ho rischiato tutto per raccontare la verità.”

Bambini in cerca di cibo

Lo stesso giorno, Mohammad Mansour di Palestine Today è stato ucciso nella sua casa a Khan Younis insieme alla moglie e al figlio, in un attacco senza preavviso che ha spazzato via un’intera famiglia.

Il massacro dell’ospedale Nasser

Il 7 aprile ha segnato uno dei momenti più bui per il giornalismo palestinese. All’alba, le forze israeliane hanno attaccato una tenda nel cortile dell’ospedale Nasser a Khan Younis, dove dormivano giornalisti palestinesi. Due giovani reporter sono morti nell’attacco, otto sono rimasti feriti.

“Eravamo tornati a riposare dopo aver seguito il massacro perpetrato contro la famiglia Al-Naffar nel centro di Khan Younis, quando siamo stati sorpresi da un’esplosione intorno alle 2:30 del mattino. La tenda di Palestine Today era in fiamme”, ha raccontato un sopravvissuto. Il Ministero degli Esteri palestinese ha definito le uccisioni un atto di “omicidio extragiudiziale”, parte dei crescenti crimini contro i giornalisti.

Fatima Hassouna: l’ultima testimone

Il 16 aprile, la fotografa Fatima Hassouna, 25 anni, è stata uccisa insieme a 10 membri della sua famiglia nel bombardamento della loro casa nel quartiere di Al-Touffah, nel nord di Gaza. La sua storia rappresenta emblematicamente il destino di una generazione di giovani giornalisti palestinesi.

Laureata in scienze multimediali presso l’University College of Applied Sciences di Gaza, Fatima documentava dal 7 ottobre 2023 la vita quotidiana degli abitanti dell’enclave. Collaborava con Untold Palestine, una piattaforma digitale indipendente dedicata allo storytelling sui palestinesi. Qualche giorno dopo la sua morte avrebbe dovuto sposarsi.

Il suo lavoro aveva attirato l’attenzione internazionale: al festival del cinema di Cannes era stato selezionato nella sezione ACID il documentario “Put your soul in your hand and walk” (Metti la tua anima in mano e cammina) della regista iraniana Sepideh Farsi, che la vedeva protagonista attraverso numerose video-chat registrate durante i mesi di guerra.

“Fatima è diventata i miei occhi a Gaza… ardente e piena di vita. Ho filmato le sue risate, le sue lacrime, le sue speranze e la sua depressione”, ha descritto la regista Farsi.

Le parole profetiche di Fatima risuonano come un manifesto di resistenza: “Ciò che conta per me è quello che faccio. Qual è l’impatto del mio lavoro? Il mio lavoro sopravviverà? Voglio che le mie foto vivano per sempre. Perché voglio che il mondo sappia che se loro non ci sostengono, siamo in grado di stare in piedi da soli.”

Sui social media aveva scritto: “Se dovessi morire, voglio una morte fragorosa. Non voglio essere solo una notizia dell’ultima ora, o un numero in un gruppo, voglio una morte che il mondo senta, un impatto che duri nel tempo. Un’immagine senza tempo che non può essere sepolta.”

La rete della repressione

La strategia di controllo dell’informazione non si limita a Gaza. In Cisgiordania, i giornalisti sono vittime di continue violazioni della libertà di stampa sia da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese che delle forze di occupazione israeliane. Come afferma Reporters Senza Frontiere: “Nella Striscia di Gaza, sono minacciati sia dalle offensive militari israeliane che dalle politiche di Hamas.”

Le aggressioni dei coloni israeliani vengono spesso documentate dai telefonini delle vittime, come nel recente caso dell’arresto del regista palestinese Hamdam Ballal, autore del documentario premio Oscar “No Other Land”. Questi episodi dimostrano come la documentazione della violenza diventi essa stessa un atto di resistenza punibile.

Le prove dell’intenzionalità

Organizzazioni internazionali e gruppi palestinesi continuano a raccogliere prove che in molti casi l’IDF (le forze armate israeliane) ha ucciso intenzionalmente i giornalisti. Reporters Senza Frontiere ha documentato 35 casi in cui l’esercito israeliano ha preso di mira e ucciso giornalisti a causa del loro lavoro.

Il Committee to Protect Journalists, che indaga sulla morte di ogni giornalista al mondo, ha identificato almeno 15 casi in cui non vi è dubbio che gli spari contro i giornalisti palestinesi siano stati deliberati. In diversi casi, è stato lo stesso esercito israeliano ad ammetterlo, sostenendo che il lavoro giornalistico degli uccisi serviva da copertura per attività all’interno di organizzazioni terroristiche.

Il bilancio devastante

Secondo il Sindacato dei Giornalisti Palestinesi, il bilancio aggiornato a fine 2025 parla di 232 operatori dei media uccisi dal 7 ottobre 2023, cui si aggiungono 390 feriti e 49 detenuti nelle carceri israeliane. Solo nei primi mesi del 2025, sono stati uccisi 15 giornalisti, con sette morti a gennaio e otto a marzo. Sono stati inoltre uccisi i familiari di 17 giornalisti, mentre le abitazioni di 12 reporter sono state distrutte da attacchi con razzi e granate.

Palestinesi in fila per un pasto

Questi numeri, in continuo aggiornamento, rappresentano solo una piccola parte delle decine di migliaia di persone uccise nella Striscia e in Cisgiordania ma testimoniano il targeting specifico di chi cerca di documentare la realtà del conflitto.

L’eco internazionale

Il 27 aprile, la trasmissione Presa Diretta su Rai3 ha documentato la situazione dei giornalisti in un reportage raccolto con gli occhi dei protagonisti, portando all’attenzione del pubblico italiano la tragedia silenziosa dell’informazione a Gaza. Il documentario ha mostrato come questi reporter abbiano letteralmente vissuto tutto ciò che hanno riportato, trasformandosi da testimoni in vittime della storia che stavano raccontando.

Quello che emerge dall’analisi del conflitto a Gaza è un paradigma completamente nuovo nella gestione dell’informazione durante le guerre. Il controllo dell’informazione non è più un effetto collaterale del conflitto ma un obiettivo strategico primario. L’isolamento di Gaza dai media stranieri, combinato con il targeting sistematico dei giornalisti locali, rappresenta un tentativo senza precedenti di creare una “guerra invisibile”.

Questa strategia si basa su tre pilastri: l’impedimento dell’accesso ai media internazionali, il controllo delle narrative attraverso tour guidati per giornalisti stranieri, e l’eliminazione fisica dei testimoni locali. L’uso dell’intelligenza artificiale per selezionare gli obiettivi aggiunge una dimensione tecnologica inquietante a questa guerra dell’informazione.

Nonostante tutto, la resistenza dell’informazione palestinese continua. Giovani reporter, fotografi e filmmaker continuano a rischiare la vita per documentare la realtà di Gaza, trasformando i social media in un campo di battaglia parallelo dove ogni video, ogni foto, ogni testimonianza diventa un atto di resistenza.

Come ha scritto Fatima Hassouna poco prima di morire: “Voglio che le mie foto vivano per sempre. Perché voglio che il mondo sappia che se loro non ci sostengono, siamo in grado di stare in piedi da soli.”

Gaza è diventata il laboratorio di una nuova forma di guerra, dove il controllo dell’informazione è diventato cruciale quanto il controllo del territorio. Ma è anche diventata il simbolo di una resistenza che, attraverso l’obiettivo delle telecamere e la penna dei reporter, continua a gridare la verità al mondo, pagando il prezzo più alto per il diritto all’informazione.

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