Giuseppe Piani, vittima del dovere

Il carabiniere cadde in un agguato mentre riaccompagnava un pregiudicato. Aveva rinunciato alle manette per umanità ma pagò con la vita.

Torre del Greco – Le valigie erano pronte. Giuseppe Piani avrebbe dovuto partire da lì a poche ore per tornare in Sicilia, riabbracciare i genitori a Santa Teresa di Riva e festeggiare il capodanno nella sua Misserio, la frazione dove era cresciuto. Invece quel 29 dicembre 1967 non fece mai ritorno a casa. Morì alle 16.30, ucciso alle spalle da un uomo che aveva appena arrestato senza violenza, senza manette, quasi con riguardo. Un gesto di fiducia che gli costò la vita.

Giuseppe aveva 38 anni, una moglie, Vittoria, e due bambine piccole, Antonietta e Carmelinda. Viveva a Sarno, in provincia di Salerno, dove prestava servizio nella squadra di polizia giudiziaria della Tenenza dei carabinieri. Era partito dalla Sicilia da giovane per seguire la carriera nell’Arma, che amava profondamente. Aveva girato mezza Italia, prima di fermarsi a Torre del Greco, dove aveva incontrato Vittoria e costruito la sua famiglia. Ma la Sicilia restava il suo punto fermo, il luogo dove tornare ogni volta che poteva.

Quel pomeriggio squillò il telefono in caserma. Una soffiata anonima segnalava la presenza di Giuseppe Cosenza, un pregiudicato ricercato, in una barberia della zona. Doveva scontare dieci giorni di carcere. Una bazzecola, pensò Giuseppe Piani. Chiamò il brigadiere Antonio Pizzo e i due si prepararono per andare a prenderlo. Le auto di servizio erano tutte occupate, ma questo non fermò Giuseppe: prese le chiavi della sua Fiat 500 e partì.

Trovarono Cosenza seduto tranquillamente nel salone, in attesa del suo turno per la rasatura. All’arrivo dei militari, l’uomo non fece una piega. Si alzò, seguì i due carabinieri senza proferire parola. Chiese solo una cosa: di non essere ammanettato. I due carabinieri acconsentirono. L’uomo si era consegnato senza problemi, doveva scontare solo dieci giorni. Perché umiliarlo? Non lo perquisirono nemmeno. Salirono tutti e tre sulla 500: Cosenza dietro, Giuseppe alla guida, Pizzo accanto al collega.

Bastarono pochi metri. Cosenza aveva nascosto una pistola sotto il giubbotto. La estrasse senza essere visto e sparò a distanza ravvicinata. Nove colpi. Cinque raggiunsero Pizzo, ferendolo gravemente. Gli altri si conficcarono nella schiena di Giuseppe, che perse conoscenza quasi subito. Cosenza scese dall’auto e scappò. Pizzo, nonostante le ferite, tentò una reazione. Impugnò l’arma e sparò, ma inutilmente. Poi crollò. Un passante li caricò in auto e li portò in ospedale. Pizzo sopravvisse. Giuseppe no.

La notizia sconvolse l’Italia. I funerali si tennero il 31 dicembre a Torre del Greco e poi a Sarno, alla presenza delle più alte cariche dello Stato. Dalla Sicilia arrivarono il padre Graziano e i fratelli Saro ed Edoardo. La madre, malata, rimase a casa. Vittoria e le due bambine accompagnarono Giuseppe nel suo ultimo viaggio verso il cimitero di Sarno, dove oggi riposa “nella schiera degli eroi”.

Cosenza fu catturato il primo gennaio 1968, nella sua abitazione. Esplose alcuni colpi contro i carabinieri ma nessuno andò a segno. Fu processato per direttissima e condannato all’ergastolo.

L’Arma dei carabinieri promosse Giuseppe al grado di Appuntato alla memoria e gli conferì la Medaglia d’oro al valor militare. Nel 2010 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano gli assegnò la Medaglia d’oro al valore civile, definendolo “nobile esempio di altissimo senso del dovere”. Sarno e Misserio gli hanno dedicato rispettivamente una strada e una piazza.

Sua figlia Antonietta ha trasformato il dolore in impegno civile, attraverso Libera e le reti di sostegno alle vittime innocenti.