Secondo l’ordinanza i Ramponi hanno orchestrato un disegno lucido per impedire lo sfratto. L’abitazione preparata come ordigno mortale.
Castel d’Azzano – La deflagrazione che ha spezzato le vite di tre militari dell’Arma a Castel d’Azzano non sarebbe stata un gesto impulsivo, ma il risultato di una strategia studiata nei dettagli. È quanto emerge dal provvedimento con cui la giudice per le indagini preliminari Carola Musio ha convalidato il fermo di Franco, Dino e Maria Luisa Ramponi. L’atto giudiziario parla di un immobile trasformato in dispositivo esplosivo e di un progetto costruito per resistere con la forza all’esecuzione dello sgombero.
Stando alla ricostruzione giudiziaria, sarebbe stata la donna ad azionare la miccia fatale, accendendo una fiamma in un locale saturo di vapori infiammabili e cosparso di carburante. Ma l’azione non sarebbe stata solitaria: i due uomini avrebbero avuto un ruolo determinante, collaborando materialmente e sostenendo moralmente l’iniziativa. Le minacce ripetute nel tempo e l’allestimento dello spazio confermerebbero, agli occhi della magistrata, la chiara volontà di scatenare un’esplosione catastrofica.
Il casolare era stato blindato come una roccaforte: ogni apertura sbarrata, recipienti di gas distribuiti ovunque, bombe molotov sistemate persino sul tetto della struttura secondaria. In passato le forze dell’ordine avevano evitato di forzare l’accesso per paura di innescare reazioni violente.
Il momento critico è arrivato quando uno dei fratelli ha lanciato un grido d’allarme annunciando un attacco imminente, dando così il via all’azione della sorella. Subito dopo è divampata la fiamma. Le registrazioni delle telecamere portatili dei carabinieri hanno immortalato urla cariche d’odio, seguite dalla tremenda onda d’urto che ha investito gli uomini in divisa. Il bilancio è stato drammatico: tre morti e decine di feriti.
Nemmeno l’intervento di rappresentanti delle istituzioni locali e statali era riuscito a far cambiare idea agli occupanti. Dopo il disastro, uno dei fratelli è tornato sul posto vantandosi della vendetta consumata, mentre l’altro si era rifugiato nei terreni adiacenti. La donna, attualmente in terapia intensiva, avrebbe proseguito nelle intimidazioni sostenendo di avere altre bombole a disposizione.
Alla radice della vicenda c’è una controversia legale avviata sette anni fa per un debito contratto e mai onorato da uno dei tre. Da allora ogni tentativo di accedere legalmente alla proprietà è stato respinto con atteggiamenti ostili e minacciosi.
Nel suo provvedimento, la magistrata evidenzia come l’edificio non fosse affatto isolato: diverse famiglie abitano a poche decine di metri. La violenza dell’esplosione e la consapevolezza del rischio per chi viveva nei paraggi dimostrano, secondo l’analisi giudiziaria, l’estrema pericolosità dei tre. Per i due uomini è scattata la reclusione, mentre la donna resta sotto vigilanza in ospedale.